Dopo molti anni di pratica giudiziaria, mi pare di poter dire con una certa cognizione di causa che non è mai né giusto né saggio oscurare o addirittura elidere il rapporto tra il paziente e il suo gesto delittuoso
Maria Grazia Giammarinaro
Le riflessioni che seguono non hanno alcuna pretesa di organicità, né danno conto di tutta la produzione dottrinale e giurisprudenziale in materia di imputabilità, ma si basano soprattutto sulla mia passata esperienza di giudice penale. Si tratta di commenti critici sulla normativa vigente e sulle prassi giudiziarie conseguenti. Metterò in rilievo l’esigenza di una revisione radicale del sistema dell’imputabilità per vizio di mente, anche alla luce delle interrelazioni tra la tematica dell’infermità mentale e la pratica del processo in tema di violenza di genere.
In primo luogo, è opportuno segnalare la scarsità di saggi giuridici sul tema dell’imputabilità per vizio di mente, mentre è stata assai più attentamente scandagliata la materia dell’imputabilità in relazione alla minore età. Pur essendo da sempre oggetto di discussione e di critica, la questione dell’imputabilità in relazione al vizio di mente potrebbe dunque sembrare un argomento desueto; tuttavia mi sembra assai più probabile che si tratti di un tema per così dire “off limits”, nel senso che chiama in causa problemi enormi in relazione alla pena e alla sua funzione. Storicamente infatti il doppio binario pena/misura di sicurezza ha avuto la funzione di porre il tema della sofferenza psichica tendenzialmente al di fuori del sistema delle pene, così creando una sorta di zona franca in cui il/la paziente affetto/a da disabilità psicosociale viene considerato/a privo/a di cognizione e volontà, e così deresponsabilizzato/a, mentre di fatto viene sottoposto/a ad una misura di sicurezza che ha spesso caratteri ben più afflittivi della pena e soprattutto comporta una grave violazione di diritti fondamentali. Ancor più discriminatoria é la situazione dei pazienti con sofferenza psichica qualificata come vizio parziale di mente, poiché una volta scontata la pena sono spesso assoggettati a misura di sicurezza, con la conseguenza di una duplicazione della sanzione e dell’applicazione di una misura detentiva di durata praticamente illimitata.
Nella dottrina penalistica, in tempi recenti non si registrano grandi innovazioni nella riflessione sull’imputabilità per infermità mentale. La giurisprudenza ha tuttavia elaborato principi di diritto che dovrebbero guidare il giudicante nell’identificazione dell’infermità rilevante ai fini della qualificazione giuridica del vizio totale o parziale di mente, nella valutazione dell’influenza della sofferenza psichica sul gesto delittuoso, e conseguentemente dell’imputabilità del soggetto. Ai fini dell’individuazione dell’infermità rilevano non solo le malattie mentali in senso stretto, e dunque non solo le psicosi, ma anche i gravi disturbi della personalità, pure se non inquadrabili nel novero delle malattie mentali, a condizione che il giudice ne accerti la gravità e l’intensità, tali da escludere o da far scemare grandemente la capacità di intendere e di volere, e il nesso eziologico con la specifica condotta criminosa.[1] Dunque anche le nevrosi e i disturbi comportamentali, normalmente trattabili con terapie di tipo psicologico, possano rientrare tra le sofferenze psichiche inquadrabili come infermità rilevanti in termini di vizio totale o parziale. È appena il caso di sottolineare che tale amplissima nozione di infermità rende il compito del giudicante particolarmente arduo.
Vi è un secondo elemento da prendere in considerazione ai fini della qualificazione del vizio di mente: l’infermità non rileva di per sé, ma piuttosto come fattore incidente sulla capacità di autodeterminazione della persona. Occorre dunque non solo accertare il disturbo psichico e la sua gravità ma anche la sua influenza sulla commissione del fatto delittuoso. In proposito è opportuno richiamare una massima della Corte di Cassazione che ha compiuto un notevole sforzo di sistematizzazione: “I disturbi della personalità (nevrosi o psicopatie) possono essere apprezzati alla luce delle norme degli articoli 88 ed 89 C.P., con conseguente pronuncia di totale o parziale infermità di mente dell’imputato, a condizione che essi abbiano, riferiti alla capacità di intendere e di volere, le seguenti qualità: globalmente in grado di incidere sulla capacità di autodeterminazione dell’autore del fatto illecito e cioè: consistenza e intensità intese come volere concreto e forte; rilevanza e gravità presente come dimensione importante del disagio stabilizzato; rapporto motivante con il fatto commesso, apprezzato come correlazione psico-emotiva rispetto al fatto illecito”.[2] Dunque, perché si possa dichiarare il vizio totale o parziale di mente, va accertata l’esistenza di una sofferenza psichica che determini “una grave e permanente compromissione” delle capacità intellettive e volitive della persona.[3] Pertanto è necessario accertare, mediante perizia psichiatrica, non solo l’esistenza della sofferenza psichica, la sua natura, qualità e gravità, ma anche se essa abbia inciso sulla capacità di autodeterminazione della persona, sia in relazione alle capacità intellettive sia in relazione alle capacità volitive.
Tale tentativo di sistematizzazione vuole essere una sorta di guida per il giudicante, e tuttavia in pratica i concetti elaborati dalla Suprema Corte si rivelano alquanto sfuggenti. Infatti, tutti i richiamati criteri si riducono in sostanza all’accertamento della gravità della patologia nella sua manifestazione effettiva, e alla sua efficacia come fattore motivante del fatto commesso. In definitiva, il complesso delle nozioni sopra indicate disegna un’area di discrezionalità del giudice – e prima ancora del/la perito/a psichiatra – fin troppo estesa, e tale da entrare in tensione con il principio di legalità. A complicare ulteriormente il quadro, la giurisprudenza si è mostrata alquanto contraddittoria in relazione alla persistenza dell’incapacità di intendere e di volere. La massima riportata più sopra parla di “disagio stabilizzato”, e dunque sembra riferirsi a una sofferenza psichica perdurante nel tempo. Tuttavia, la giurisprudenza è univoca nell’affermare che l’incapacità di intendere e di volere deve sussistere al momento del fatto, e dunque può avere carattere puramente transitorio. In altre parole, mentre la patologia sottostante deve avere un carattere stabile, l’incapacità di intendere e di volere può essere riscontrata come stato psichico momentaneo. Anche in questo caso il compito dell’interprete è non solo arduo, ma soprattutto privo di parametri di riferimento sufficientemente definiti.
Che significa infatti verificare che vi sia “una patologia stabilizzata”, e tuttavia influente solo in modo occasionale sul comportamento del soggetto? Vi sono casi in cui il paziente psichiatrico è frequentemente soggetto ad esplosioni di violenza nell’arco di tutta la sua esistenza. In questo caso non è difficile comprendere che proprio l’infermità psichiatrica in sé considerata può avere motivato un atto di violenza sfociato in lesioni gravi o addirittura nella morte della persona aggredita. Tuttavia, nella grande maggioranza dei casi la motivazione dell’atto criminoso va ricercata non nella malattia mentale in sé, ma piuttosto nella sfera relazionale della persona, e dunque nei sentimenti di competizione, frustrazione, astio, rancore, o persino di odio, che possono prodursi nel circuito familiare o dei rapporti personali. L’interazione tra il movente relazionale e quello riconducibile alla sofferenza psichica è difficilmente determinabile, e si corre dunque il rischio di una valutazione puramente arbitraria o fondata su pregiudizi e/o stereotipi, peraltro assai diffusi in questa materia.
Quelle che qui vado sviluppando sono riflessioni personali basate sulla mia esperienza di giudice. Tuttavia, esse nascono anche da un’intensa collaborazione con una psichiatra straordinaria di scuola basagliana, la dott. Assunta Signorelli, cui ho affidato l’incarico di svolgere perizie psichiatriche in molti miei processi. Dopo molti anni di pratica giudiziaria, mi pare di poter dire con una certa cognizione di causa che non è mai né giusto né saggio oscurare o addirittura elidere il rapporto tra il paziente e il suo gesto delittuoso. Attraverso la nozione di non imputabilità per vizio totale di mente si rischia di confinare l’atto compiuto dal/la persona con disabilità psichica in un non-detto, in una zona di non-memoria e dunque di non-esistenza. Il delitto compiuto rischia perciò di diventare una sorta di “buco nero” che inghiotte tutti i frammenti di coscienza e volontà, che sia pure in modo discontinuo e/o distorto, il paziente psichiatrico sempre conserva.
In altri termini, la dogmatica penalistica sulla non imputabilità per vizio di mente, negando che la persona affetta da sofferenza psichica sia responsabile dei suoi gesti, ne nega la soggettività, confinandola in definitiva in una condizione di non-persona. Per contro, una volta affermato che il/la paziente affetto da psicosi o da nevrosi conserva soggettività e responsabilità, viene meno la ragione stessa della nozione di non imputabilità. Viene meno anche l’esigenza di valutare la pericolosità sociale del soggetto, poiché non diversamente da ciò che avviene per i “sani”, per i pazienti psichiatrici la pericolosità non può che essere desunta dalla gravità del fatto di reato e dall’intensità dell’elemento soggettivo, cioè del dolo, su cui peraltro può avere influito la patologia. In questo caso la rimproverabilità dell’autore del delitto è minore in ragione dei fattori patologici che hanno influito sul processo motivazionale. L’eliminazione della nozione di pericolosità sociale ai fini dell’applicazione di una misura di sicurezza è parimenti indispensabile e urgente. Se infatti la dichiarazione di non imputabilità, a causa della vaghezza dei criteri di riferimento, entra in tensione con il principio di legalità, la nozione di pericolosità sociale e la conseguente applicazione della misura di sicurezza ne sono la patente negazione, comportando un giudizio il più delle volte totalmente arbitrario. Occorre dunque pensare a un superamento netto del regime del doppio binario pena/misura di sicurezza, attraverso l’abolizione della non imputabilità per vizio di mente, restando la non imputabilità applicabile al reato commesso da minori. Tuttavia, in questo come in altri campi, le riforme di diritto penale non bastano. Occorre infatti che gli istituti di detenzione siano attrezzati al trattamento dei vari tipi di nevrosi o di psicosi, e che dunque durante l’espiazione della pena il paziente non corra il rischio di un deterioramento delle proprie condizioni di salute psichica. Soprattutto, occorre che fuori dagli istituti di pena esistano strutture territoriali valide, che possano prendere in carico la persona con sofferenza psichica e mettere in atto le terapie adeguate in modo da eliderne la potenziale pericolosità e da promuoverne stabilizzazione ed eventualmente miglioramento.
Finora l’esistenza di una sofferenza psichica è stata considerata incompatibile con l’irrogazione e l’esecuzione di una pena. Tale approccio va a mio parere radicalmente contestato. La funzione rieducativa della pena può infatti attagliarsi anche ai pazienti affetti da infermità mentale, purché esistano strutture e terapie adeguate, e purché al/la paziente si riconosca piena soggettività. La detenzione comporta un elemento di afflittività che può essere percepito dal/la paziente come adeguata retribuzione rispetto all’atto delittuoso, di cui egli/ella può essere in grado di percepire il disvalore. Tuttavia, la detenzione dovrebbe essere limitata al minimo, e dovrebbero applicarsi il più possibile misure alternative non detentive, adeguate alle esigenze di cura. Una recentissima sentenza della Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 69 comma 4 del codice penale nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante del vizio parziale di mente sulla circostanza aggravante della recidiva, così offrendo all’interprete una ulteriore possibilità di graduare la pena in ragione della disabilità psichica. La sentenza ha anche un valore sistematico, poiché chiarisce che “la circostanza attenuante del vizio parziale di mente mira ad adeguare il quantum del trattamento sanzionatorio alla significativa riduzione della rimproverabilità soggettiva dell’agente, ed è pertanto riconducibile a un connotato di diritto “costituzionalmente orientato “ così come ricostruito dalla giurisprudenza di questa Corte: giurisprudenza che (..) individua nella rimproverabilità soggettiva un presupposto essenziale dell’imputazione del fatto al suo autore, e conseguentemente dell’applicazione della pena nei suoi confronti”.[4] In tal modo la Corte apre la strada ad una commisurazione gradata e ad una sostanziale limitazione della pena irrogabile in tutti i casi di disabilità psicosociale.
Nella prospettiva dell’abolizione della non imputabilità, resta il problema dei delitti gravi, con minimo edittale elevato, in relazione ai quali non è possibile ridurre la pena detentiva oltre un certo limite. Nei casi più gravi occorre prevedere percorsi totalmente alternativi alla detenzione; in altri casi occorre pensare a come strutturare la somministrazione delle terapie negli istituti di pena, senza che ciò si traduca surrettiziamente nell’istituzionalizzazione di reparti manicomiali all’interno del carcere. Occorre poi assicurare un’effettiva presa in carico territoriale di tipo psicologico o psichiatrico, in base alla patologia accertata. È questo l’aspetto più difficile da risolvere, tenuto conto della assoluta inadeguatezza delle strutture territoriali.
Nella mia esperienza di giudice, non ho mai dichiarato la non imputabilità per vizio totale di mente. Nella grande maggioranza dei miei processi, mi sono trovata di fronte a persone affette da sofferenze psichiche di vario genere, che avevano commesso crimini di diversa gravità, prevalentemente lesioni, anche gravi o gravissime, e in un caso un duplice omicidio. Si trattava spesso non di malattie mentali ma di gravi nevrosi, trattabili con terapie psicologiche. Ma anche in un caso di psicosi di una certa importanza, in base alle risultanze della perizia psichiatrica ho dichiarato il vizio parziale, e dunque ho irrogato una pena detentiva meno grave, senza applicare alcuna misura di sicurezza. In quel caso il delitto era maturato in una situazione relazionale percepita dalla persona come sistematicamente abusiva, che non si sarebbe mai potuta riprodurre in altro contesto relazionale. L’autrice del reato – in questo caso una donna – mostrava infatti una persistente affettività nei confronti degli altri membri della famiglia e in particolare dei/delle figli/e. In tutti questi casi, dunque, senza negare la soggettività e la responsabilità dell’imputato/a, ho dichiarato il vizio parziale di mente e ho irrogato la pena in misura ridotta, senza applicare alcuna misura di sicurezza. Tuttavia mi rendo conto che senza la certezza di una presa in carico al livello territoriale, dopo l’espiazione di una pena breve da parte del/la condannato/a, le famiglie si trovano a farsi carico di tutte le difficoltà connesse con la gestione di un/a paziente con sofferenza psichica. In qualche caso da me giudicato, in cui le conseguenze del reato non erano state particolarmente gravi, da notizie trasmesse dai familiari alla perita psichiatra, ho saputo che le condizioni di salute mentale dei pazienti erano migliorate. Attribuisco questi successi al fatto che la perizia psichiatrica era stata molto accurata ed era stata svolta mediante vari e lunghi colloqui, che i/le pazienti erano state/i sottoposte/i a terapie adeguate sia durante la detenzione sia successivamente, e che tali terapie erano state consentite dai/dalle pazienti, i/le quali avevano avuto modo di rendersi conto del senso e del disvalore del reato che avevano commesso, e della necessità delle cure.
La linea di ragionamento che ho proposto consentirebbe di affrontare in modo adeguato anche la controversa questione della imputabilità/non imputabilità nei casi di violenza di genere, quando il ricorso alla non imputabilità riemerge come strategia difensiva degli autori di violenza domestica e/o sessuale sistematica o di femminicidio. Non si tratta per la verità di un fenomeno nuovo. Si riscontrano nella storia del nostro Paese vari casi di affiliati ad associazioni mafiose dichiarati malati di mente, non imputabili e non punibili, nei confronti dei quali non veniva nemmeno applicata una misura di sicurezza. Oggi tuttavia la questione assume una rilevanza culturale oltre che di politica criminale. Infatti, la non imputabilità viene invocata come scudo protettivo dagli uomini che usano violenza contro le loro mogli o compagne, violenza a loro dire causata da gelosia, e assai sovente messa in atto al momento della rottura del rapporto o successivamente. Tuttavia, nella grande maggioranza dei casi gli autori di violenza non agiscono in preda a un “delirio” patologico, bensì in nome di un codice patriarcale tradizionale che legittima la gelosia e la violenza come forme di possesso da parte dell’uomo nei confronti della sua compagna. Ricondurre questi casi al vizio di mente implica due conseguenze assai negative. La prima è considerare gli atti di violenza di genere come comportamenti devianti di tipo individuale, dunque estranei alla violenza sistemica, come se gli squilibri di potere prodotti dal patriarcato fossero ormai magicamente superati. La seconda è che l’autore del fatto viene esonerato dalla sanzione, il che contribuisce a convalidare ulteriormente la persistenza e validità del codice patriarcale che legittima culturalmente il gesto delittuoso.
Entrambe le conseguenze sono ovviamente perniciose non solo per le donne che hanno subito violenza, ma per lo stesso progresso culturale e sociale del Paese. Nella grande maggioranza dei casi di violenza di genere non vi è alcuna psicosi alla base dell’aggressione; può esservi talora una nevrosi, come le tante che caratterizzano le relazioni di intimità; ma generalmente la nevrosi non è di tale gravità da poter essere individuata come concausa psicologica del gesto violento. Quando un uomo reagisce in modo violento al fatto di essere “abbandonato”, e dunque rifiutato da una donna alla quale non ha mai riconosciuto piena soggettività e libertà, il suo gesto aggressivo non è quasi mai motivato da nevrosi, ma è piuttosto espressione di violenza di genere nella sua forma più evidente, poiché vuole infliggere una “punizione” alla donna che trasgredisce il codice tradizionale, e al contempo mira a ricostruire il proprio potere nella relazione.
Certo, vi può essere anche il caso di un atto di violenza in cui il fattore motivante è una grave psicosi, che si è manifestata nell’arco della vita del paziente con esplosioni gravi di aggressività, e che in ultimo ha provocato lesioni o la morte della vittima. Si tratta tuttavia di casi assai rari, per i quali valgono le stesse considerazioni svolte a proposito del superamento del vizio totale di mente come causa di non imputabilità. Anche in queste ipotesi estreme, infatti, un uso adeguato della discrezionalità nella commisurazione della pena, e l’applicazione di sanzioni alternative compatibili con le esigenze di cura, consentirebbero di affrontare il problema senza ricorrere alla non imputabilità, che in nome del trattamento penale di casi estremi, provoca la generalizzata ghettizzazione di tutte le forme di disabilità psicosociale. D’altra parte, anche il soggetto psicotico agisce in un preciso contesto culturale. Non deve dunque escludersi a priori che l’autore del delitto di uxoricidio o di lesioni nei confronti della sua o compagna o ex compagna, quand’anche psicotico, non sia stato spinto all’aggressione anche in virtù del rapporto di potere legittimato dalla cultura tradizionale[5]. Infatti, l’esplosione della violenza del paziente psicotico verso la compagna si verifica non solo quando la donna vuole troncare la relazione, ma anche quando la donna assume un ruolo decisionale e di autorità nei confronti del compagno, per esempio insistendo perché il paziente assuma i farmaci prescritti, o imponendogli una certa terapia. Proprio l’inversione del rapporto di potere tradizionale può essere percepito dall’uomo come inaccettabile, e diventare fattore scatenante di una violenza che diviene omicidaria anche a causa della patologia psichiatrica.
La recente sentenza della Corte d’Assise di Brescia in tema di imputabilità e violenza di genere, di cui molto si è parlato sulla stampa, è stata resa proprio su un caso di uxoricidio.[6] La sentenza ha prosciolto un uomo che aveva ucciso la moglie nel sonno a coltellate, dichiarando la non imputabilità per vizio totale di mente, e sostenendo che l’autore avesse agito in preda a un “delirio di gelosia”. La sentenza crea un precedente che, con buona pace del comunicato di chiarificazione, sarà purtroppo invocato per esimere l’uomo violento da responsabilità penale proprio in nome del “delirio di gelosia”. Se vi era delirio, bisognava parlare di delirio senza ulteriori qualificazioni. Se anche il delirio assume il linguaggio della gelosia, esso è manifestazione di grave patologia psichiatrica. Avere artificiosamente creato un parallelismo tra delirio di gelosia e movente di gelosia, cioè tra sofferenza psichiatrica e gelosia, è del tutto fuorviante. Il delirio è una delle manifestazioni della malattia mentale. La gelosia è invece un sentimento che nasce dalla pretesa di possedere e/o controllare un’altra persona. Se il delirio può attenuare, ma non elidere, la colpevolezza – vale a dire lo stato soggettivo dell’autore del reato – la gelosia, in quanto espressione di un codice patriarcale basato sulla sopraffazione, non può né elidere né attenuare la responsabilità penale. Anche in questo caso il sistema della non imputabilità non solo non serve, ma può condurre a risultati perversi.
[1] Cass. Sezioni Unite Penali, Sent. 25 gennaio 2005 n. 9163.
[2] Cass.Pen., sez V, Sent. 11 maggio 2011 n. 17305.
[3] Ibidem.
[4] Corte Cost. Sent. n. 73/2020.
[5] Corsivo redazionale
[6] Non uso il termine femminicidio perché presenta ancora troppi margini di ambiguità e si presta a diverse interpretazioni in ambito penalistico.
Comments are closed.