Premessa
PERCHÉ QUESTO MANUALE
Grazia Zuffa
Empowerment in carcere, con le donne: come è nato un progetto
L’idea ci è venuta seguendo il “partire da sé”: la sottoscritta, Susanna, Liz e Serena, seppure in modi e tempi diversi, ci siamo occupate di prigioni e prigionieri; così come, in modi e tempi un po’ diversi, abbiamo rivolto l’attenzione alla differenza di genere, ci siamo appassionate al pensiero e alla pratica della differenza femminile. Niente di più naturale che pensare alle prigioniere, cercando di farlo in maniera “differente” appunto.
Si noterà l’uso alquanto insolito della parola “prigioniere”, al posto del più consueto “detenute”. Non si tratta di subalternità al termine prisoners del mondo anglosassone, che – si sa- predilige gli approcci bruschi; piuttosto, ho scelto una dizione che rimanda immediatamente alle sbarre e al nocciolo della perdita della libertà. Perché è anche il nocciolo della soggettività di chi sta in carcere (del pensare, del sentire, del patire la paura più grande: perdere sé stesse insieme alla libertà). Infatti, la libertà è una cosa grande, fa parte dell’essenza dell’umano: l’ha scritto tanti anni fa Aldo Moro, argomentando la disumanità dell’ergastolo, in quanto privazione perpetua di questo fattore- la libertà- che qualifica la “essenza umana” (Per lo scritto di Moro, vedi il volume “Contro gli ergastoli” (2021), a cura di S. Anastasia, F. Corleone, A. Pugiotto, pp.215 sgg.).
Ciò per dire che fin dall’inizio non abbiamo voluto tanto occuparci della “condizione” della detenuta: cioè delle magagne del carcere, della povertà di offerte educative e riabilitative, dell’assurdo di un carcere che offre alle donne perfino minori opportunità che non agli uomini, del sovraffollamento di cui tanto si parla come se fosse l’unico problema (e forse per questo poco si fa); bensì abbiamo cercato di illuminare come le donne pensano a se stesse in quella particolare “condizione”, come percepiscono il loro corpo femminile imprigionato, in chi sperano per avere un aiuto, che cosa e chi vedono nel carcere intorno a sé, come guardano al “fuori” (alle relazioni che le sostengono nel presente, al futuro più o meno prossimo che le attende). Insomma, uno sguardo carico di “ragione e sentimento” a partire da sé, per arrivare con più strumenti di comprensione al mondo che le circonda: se si vuole, un itinerario più complesso, o un cannocchiale “differente” per inquadrare anche la condizione del carcere.
Il focus sulla soggettività femminile si è concretamente tradotto nel dare voce alle donne e valore al loro sentire: con questa prima mossa di empowerment, attraverso il “potere” della parola, è partito il progetto, realizzato attraverso gli incontri del “laboratorio”, sperimentati nel 2018 negli istituti di Pisa e di Firenze-Sollicciano. Il “dare voce” si è poi ampliato, prima e dopo il “laboratorio”, attraverso interviste in profondità a diverse donne detenute, ma anche a volontarie, ad assistenti di polizia, a dirigenti e ad altre figure, per coinvolgere tutti gli attori e le attrici che con le prigioniere quotidianamente si confrontano.
“Miseria” e stereotipi del femminile
Abbiamo toccato con mano quanto il riconoscimento del potere (dell’essere in grado di), fulcro dell’esperienza del “laboratorio”, incontri – o piuttosto si scontri – con la rappresentazione dominante della detenuta, concentrata sulla fragilità, specie sulla fragilità psichica, e sulla mancanza di risorse a tutto campo (economiche, culturali, sociali). Abbiamo anche incontrato stereotipi che “da fuori” pensavamo ormai superati: come quello della “minorità” delle donne, a metà strada fra il bambino e l’adulto, prede di emotività non controllata dalla ragione, incapaci di intessere relazioni adulte e reggere conflitti come invece fanno gli uomini. Un immaginario superstite che influenza anche qualche detenuta e qualche volontaria: si rileggano le pagine su “l’eccesso” femminile, nel volume La prigione delle donne (pp. 36-39), che dà conto dell’esperienza del laboratorio nelle due carceri toscane.
Il nuovo cannocchiale ha permesso di rovesciare i luoghi comuni della “miseria” femminile. Le detenute, che a detta di non pochi operatori “non partecipano alle attività”, si sono avvicinate convinte al “laboratorio”: alla scoperta dei loro punti di forza, senza dimenticare i punti critici, ma senza farsene sopraffare. Il quotidiano si è riempito di nuovi significati, spesso ambivalenti: si soffre per aver lasciato figli e compagni, e forse si soffre di più degli uomini perché si avvertono in maniera acuta le responsabilità. Ma le responsabilità ci ricordano quanto siamo importanti per le persone di cui ci prendiamo cura, perciò sono una spinta in più per andare avanti. Si soffre perché non siamo padrone dei nostri spazi di vita, e forse si soffre di più degli uomini, ma siamo più in grado di prenderci cura degli ambienti, se solo trovassimo un carcere che sa valorizzare appieno queste competenze. Siamo più in grado di intessere relazioni con altre donne e di apprezzarle come una ricchezza, anche in un contesto di intimità forzata come sono le celle. Queste relazioni ci danno forza, anche se soffriremo di più per le separazioni.
Resistenza, crescita, cambiamento
Rimane da esplorare la particolarità dell’approccio di empowerment nel contesto carcerario. Come si concilia l’accento sulle capacità e il riconoscimento del “potere” dei soggetti con la condizione di totale “mancanza di potere” della privazione della libertà? E come si concilia coi dispositivi carcerari di disciplinamento basati sulla “mortificazione” del sé, sulla “spoliazione” identitaria? Come fare i conti con il di più di “minorazione” che le donne incontrano, che ricorda tratti del riformatorio femminile: la tendenza intrusiva nella sfera sessuale- affettiva, l’attitudine autoritaria che muta la vulnerabilità in stigma, il giudizio arcigno sulle attitudini materne? Tendenze e tentazioni che magari si pretende di giustificare nella logica terapeutica/correzionale del trattamento, per “valutare” a fondo la personalità (nel mentre si dimenticano le esigenze della persona). Qui mancano due parole: diritti e rispetto, ha detto una donna detenuta durante un incontro del Laboratorio. Parole suggestive, che sintetizzano l’attraversamento di territori ostili, come descritto in dettaglio nel citato “La prigione delle donne”.
In questo quadro, l’empowerment acquista da subito un valore di resistenza e resilienza, nella ricerca e gelosa custodia dei tanti sé non riducibili al reato e alla carcerazione (Non ti far mettere il blindo al cervello, è il monito di una donna).
Sulla via del cambiamento, va colta la forza del percorso collettivo che il laboratorio propone: insieme si troveranno le parole per riconoscere e nominare i meccanismi di “minorazione”. I territori ostili lo diventano un po’ meno se si impara a conoscerli e possiamo anche intravedere sentieri di attraversamento meno impervi. Detto altrimenti: proprio perché il tragitto è faticoso e irto di pericoli, abbiamo bisogno di tutta la nostra forza, intelligenza, capacità di resistenza per raggiungere al meglio la meta del ritorno alla libertà.
Non è detto che il carcere sia davvero riformabile, anzi in molti ne dubitano proprio a partire da quella “enormità” della privazione della libertà che incarna. Una enormità che andrebbe meditata e rimeditata, senza mai stancarsi. E tuttavia già questa meditazione collettiva significa cambiamento, ancora più radicale se ne sono protagonisti i soggetti che il carcere lo vivono: tutti e tutte, prigionieri e prigioniere in primis, ma anche operatori vari, con i loro mandati anche questi tutti da discutere.
Come si legge (cit. p.123): c’è una infinita gamma di azioni, gesti, strategie che la soggettività di chi vi è reclusa e recluso mette in atto al fine di rimanere “intere” e “interi”. nella resistenza quotidiana ai dispositivi mortificanti del carcere. I laboratori di self empowerment sono uno strumento per moltiplicare queste azioni.
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