Trattamento Sanitario Obbligatorio, contenzione, salute mentale. Il ruolo dei garanti delle persone private o limitate nella libertà per la trasparenza delle pratiche sanitarie.
Intervento alla Conferenza Salute mentale, Roma, 14 e 15 giugno 2019
Di Grazia Zuffa*
L’associazione che presiedo, la Società della Ragione, ha promosso come tappa fiorentina del percorso della conferenza, con un incontro fra i Garanti delle persone private della libertà e le associazioni che a vario titolo si occupano di salute mentale sul tema del Trattamento Sanitario Obbligatorio e della contenzione. Poiché nell’incontro fiorentino qualcuno ha richiesto chiarimenti sul ruolo dei garanti, forse è bene partire da qui: cominciando col dire che i Garanti – fino dalla loro istituzione – hanno avuto come ambito di competenza “le persone private o limitate nella libertà”, non solo i carcerati come può essere erroneamente desunto dalla sbrigativa dizione popolare di “garanti dei detenuti”. Dunque, fin dall’origine del loro mandato i garanti hanno avuto fra le loro competenze la tutela dei diritti delle persone obbligatoriamente sottoposte a trattamento psichiatrico e dei pazienti oggetto di pratiche di contenzione. Il fatto che fino a poco tempo fa l’area di prevalente, se non di esclusivo, interesse dei Garanti sia stato il carcere (onde la dizione popolare di “Garanti dei detenuti”) ha una ragione storica, nella sensibilità che si è creata intorno all’istituzione carceraria e all’urgenza di tutelare i diritti delle persone rinchiuse nei luoghi “non trasparenti” per eccellenza, le prigioni.
Il ritardo a intervenire sulle situazioni di limitazione di libertà in ambito sanitario deve semmai essere colmato, anche perché nel frattempo l’oscillazione e la fluidità di confini fra limitazione e privazione della libertà si sta allargando in altri settori dell’area sanitaria. Si pensi al delicato problema di alcune pratiche di assistenza agli anziani che comportano notevoli costrizioni: non a caso alcune regioni cominciano a istituire una figura specifica di Garante della Salute. Non si tratta solo di tenere gli occhi aperti perché alcune nuove situazioni suscitano perplessità, vedi alcune pratiche cui sono sottoposti gli anziani. Ci sono anche ragioni positive: è cresciuta la sensibilità verso il valore dell’autodeterminazione del paziente. Si pensi all’importanza del consenso informato, alla recente legge sulle Disposizioni Anticipate di Trattamento (DAT) che ha definitivamente riconosciuto sul piano giuridico il diritto del paziente al rifiuto del trattamento.
Il Trattamento Sanitario Obbligatorio come pratica eccezionale
Ovviamente le due questioni, TSO e contenzione, vanno assolutamente distinte, come ribadirò fra poco. Inizierò ragionando in specifico sul TSO.
Da quanto è emerso fin qui dal lavoro dei Garanti, in specie del Garante nazionale, nell’universo sanitario, partendo dalle istituzioni (i responsabili politici e amministrativi) fino agli operatori quotidianamente impegnati sul campo, sembra carente la consapevolezza circa la limitazione della libertà personale che il Trattamento Sanitario Obbligatorio comporta. Sembra quasi che la finalità curativa del TSO porti – non dico a dimenticare- ma a sottovalutare la fondamentale differenza fra trattamento volontario e non volontario. Accade perfino che il richiamo a considerare l’aspetto di privazione/limitazione della libertà delle persone in TSO e la considerazione positiva dei compiti dei Garanti in questo campo siano interpretati da qualche operatore come una diminutio del loro ruolo terapeutico: come se si sentissero spogliati del camice medico e rivestiti degli scomodi panni di custodi dei matti in quanto “pericolosi a sé e agli altri”. Ne deriva un ragionamento paradossale: noi curiamo, e poiché curiamo non limitiamo la libertà di alcuno (sic!). Oltre che in contrasto con la realtà, tale assioma è pericoloso perché richiama il “paternalismo medico”, così ben radicato nella cultura italiana, storicamente refrattaria alla protezione delle libertà.
Bisogna allora contrastare l’insofferenza del mondo sanitario alle forme di vigilanza esterna, particolarmente pericolosa in tempi di forte attacco ai diritti e alle libertà personali.
L’equivoco cui ho accennato dimostra però la necessità di inquadrare correttamente la limitazione della libertà – implicita nel trattamento involontario – nell’ambito di una pratica di cura. E’ stato da tutti riconosciuto e ribadito che il trattamento involontario è previsto come forma di cura e garanzia delle persone in momenti di particolare fragilità. E’ questa la ratio delle norme di legge sul TSO, contenute nella 180, che infatti prevedono molte garanzie per il paziente. Tuttavia la copertura di legge non deve far dimenticare che l’obbligatorietà della cura è pur sempre una eccezione al principio costituzionale che stabilisce la libertà della persona di non sottostare alle cure (art.32), se non per dispositivo di legge, come prosegue lo stesso articolo. Ma il rinvio alla legge va inteso come garanzia alla persona rispetto alla straordinarietà della procedura, e non come viatico all’ordinarietà della stessa.
La stessa eccezionalità vale rispetto ai principi dell’etica medica (beneficienza, non maleficenza, autonomia del paziente, equità nelle ripartizione delle risorse), considerato che il TSO sospende il principio di autodeterminazione della persona.
Se, com’è vero, la legge 180 segna, normativamente e simbolicamente, il passaggio dal paradigma manicomiale-custodiale al paradigma terapeutico, la trasparenza delle pratiche concretamente messe in atto nei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (SPDC) permette di capire quanto questo passaggio sia culturalmente e operativamente acquisito. Rispetto al TSO, il “passaggio di paradigma” si misura sulla piena consapevolezza (da parte degli operatori e delle istituzioni sanitarie) della “eccezionalità” del trattamento involontario e su quanto si faccia per rispettare tale eccezionalità. Del resto è quanto la legge prescrive, laddove richiede alla unità sanitaria locale di operare “per ridurre il ricorso ai suddetti trattamenti sanitari obbligatori” (art.33, comma 1).
Ridurre fino a eliminare la contenzione
Il fatto che i Garanti abbiano fra le loro competenze sia il TSO, sia la contenzione non deve indurre alla sovrapposizione delle due pratiche, che vanno assolutamente distinte. Il TSO è regolato dalla legge con una serie di garanzie per il paziente, laddove la contenzione, secondo alcuni giuristi, non avrebbe alcuna legittimità giuridica e si configurerebbe come forma di violenza privata. In ogni modo, l’obiettivo da perseguire è di ridurre, fino a eliminare la pratica della contenzione, come del resto ha scritto il Comitato Nazionale di Bioetica nel suo parere in merito del 2015 http://bioetica.governo.it/it/documenti/pareri-e-risposte/la-contenzione-problemi-bioetici/. L’esperienza dei SPDC no restraint, che non applicano la contenzione e neppure hanno gli strumenti meccanici per applicarla, è un punto di forza nella battaglia contro la contenzione. Sempre il CNB invitava nelle raccomandazioni finali a un attento monitoraggio dell’uso della contenzione e a predisporre programmi per la sua riduzione fino all’eliminazione. Si chiedeva anche alle autorità sanitarie di individuare criteri di qualità dei servizi, in cui l’assenza (o l’utilizzo minimo) della contenzione siano stabiliti come indici di qualità.
Le principali criticità
Per questioni di spazio, mi limito a commentare alcuni problemi, denunciati nelle Relazioni del Garante Nazionale e nella Relazione del Garante Regionale della Toscana. In seguito, sarà interessante approfondire e mettere a paragone quanto emerge dalle Relazioni di altri Garanti regionali.
Il Garante Nazionale insiste sulla carenza e la non sistematicità di dati disponibili “per la disabitudine dei Dipartimenti di salute mentale all’osservazione di occhi esterni”. Tale carenza è confermata nella relazione del Garante della Toscana: ad esempio, dai dati inviati dalle autorità sanitarie, non è chiaro se i giorni di durata della degenza indicati per i pazienti sottoposti a TSO (in genere ben al di sopra dei 7 giorni) siano comprensivi o meno dell’eventuale passaggio al trattamento volontario. Eppure questo è un dato fondamentale per capire l’aderenza alla legge che prescrive che i TSO “devono essere accompagnati da iniziative volte ad assicurare il consenso” (art.33 833/78 penultimo comma).
Circa la carenza dei dati, è stato obiettato da qualche operatore che i dati sui TSO dovrebbero essere richiesti al Giudice Tutelare, non alle aziende sanitarie e alle Regioni. Senza negare l’importanza di ricevere informazioni anche dal Giudice Tutelare, tuttavia la raccolta dati da parte delle autorità sanitarie è fondamentale, se non altro per ottemperare alla legge che richiede alle autorità sanitarie di predisporre i già citati programmi per la riduzione dei TSO. Lo stesso per la contenzione, se si vogliono predisporre i già citati programmi per la sua eliminazione.
Tornando alla Relazione del Garante della Toscana, è preoccupante invece che non sia stato fornito alcun dato sulla contenzione: i servizi toscani non tengono un registro delle contenzioni, che vengono annotate solo nelle cartelle cliniche dei pazienti. Ciò è tanto più singolare, considerando che da molti anni il Piano sanitario Regionale della Toscana esclude la contenzione: ma l’assenza del registro non è stata giustificata dai responsabili dei DSM con l’assenza di contenzioni, bensì appunto col rimando all’esame delle cartelle cliniche. In conclusione, non c’è modo di verificare se la contenzione sia applicata o meno e eventualmente in che misura.
In ogni modo, non risulta che in Toscana sia stato avviato un programma per la riduzione del TSO, né tantomeno di monitoraggio della contenzione, per verificare l’eventuale sussistenza della pratica.
Le tutele di legge (art. 33, 34, 35 della 833/78): quanto sono osservate?
Dalla ricognizione del Garante Nazionale, è emerso che i sindaci accolgono al 100% la richiesta dei medici di disporre il TSO in degenza ospedaliera. Anche i giudici tutelari convalidano sempre, o quasi sempre, il provvedimento del sindaco. In più, non si riscontrano ricorsi al tribunale competente da parte di chi è sottoposto al TSO. Ciò solleva il dubbio che le garanzie di legge siano interpretate come pura routine.
Rispetto al fatto che la richiesta motivata di un medico debba essere convalidata “da parte di un medico della unità sanitaria locale” (art.34, quarto comma), il Garante Nazionale ha riscontrato che molto spesso il medico che convalida appartiene allo stesso servizio, mettendo in forse l’indipendenza del parere del secondo medico.
Ancora: la legge prescrive che “nel corso del TSO l’infermo ha diritto di comunicare con chi ritenga opportuno” (art.33, comma 2). Emerge invece che in molti SPDC i pazienti non hanno facoltà di telefonare ai familiari, né ai familiari è concesso di far visita ai congiunti ricoverati.
Infine, ci sono altri aspetti importanti della legge che sembrano non sempre rispettati. Il TSO può essere attuato in condizioni di degenza ospedaliera “solo se esistano alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici, se gli stessi non vengano accettati dall’infermo, e se non vi siano le condizioni e le circostanze che consentano di adottare tempestive e idonee misure sanitarie extra ospedaliere” (art.34, comma 4). Inoltre il paziente ha “per quanto possibile il diritto alla libera scelta del medico e del luogo di cura” (art.33, comma 1).
Queste norme presuppongono che siano stati fatti tutti gli sforzi per fornire al paziente una completa e corretta informazione sul trattamento che si intende applicare. In mancanza della quale, rischia di venire meno il presupposto della liceità stessa del TSO, basato sulla non accettazione del trattamento da parte della persona malata (che dunque deve essere informata sulle ragioni e la natura del trattamento, per quanto possibile, per poterlo rifiutare).
In altre parole, il trattamento obbligatorio non fa venire meno la necessità dell’informazione, laddove invece appare che spesso il TSO venga interpretato come “trattamento non informato”.
L’impatto della cultura dei servizi
Dalla relazione del Garante della Toscana, emergono notevoli differenze nel numero di TSO da SPDC a SPDC, senza che si registrino rilevanti differenze epidemiologiche. Ad esempio, fra due città toscane prossime geograficamente e per dimensioni e contesto socioculturale, esiste uno scarto dai 50 dell’una ai 500 TSO dell’altra, all’anno. La cultura dei servizi sembra emergere come elemento essenziale per spiegare le differenze. Ciononostante, non risulta che esista un’azione formativa per non ricorrere al trattamento involontario e aumentare la competenza relazionale degli operator. Anzi, nell’incontro coi Garanti da noi promosso, è stato denunciato che in alcuni casi si sceglie un approccio preventivo discutibile e stigmatizzante, mirato a individuare gli individui “a rischio di aggressività”; al posto di un approccio ecologico, volto a migliorare le condizioni ambientali-relazionali del servizio.
Non è solo una questione di cultura, però. Interloquire con un paziente per convincerlo al trattamento volontario comporta, oltre che professionalità, tempo ed energie: il che diventa sempre più difficile nell’attuale stagione di tagli al personale e alle risorse per il funzionamento del sistema sanitario. Il ricorso al TSO è spesso la via più sbrigativa per gli operatori: a conferma che che la qualità degli interventi è il primo fattore che decade nel processo di contrazione del welfare.
In conclusione
I Garanti delle persone private o limitate nella libertà possono svolgere – e già stanno svolgendo- un ruolo importante nel dare visibilità alle pratiche del TSO e della contenzione e assicurarne la trasparenza. È importante il collegamento e il coordinamento con l’opera di “vigilanza democratica” che svolgono le associazioni dei pazienti e familiari e tutte le altre ONG che operano sul campo.
*Presidente de la Società della Ragione ONLUS
1 commento
meno male che qualche voce critica si sta alzando, purtroppo quì a Bologna, ad esempio, ma anche in tutta l’Emilia le cose vanno piuttosto male, e il mondo dell’associazionismo psichiatrico rimane tristemente “neutrale”, succube del potere del mondo medico accademico e medico, chi si pone come voce critica anche in questo ambiente passa da inevitabilmente da rompic…. o anche da sindacalista dei matti…