Intervento di Pietro Pellegrini[1]
L’applicazione della legge 81/2014 ha consentito nell’arco di alcuni anni di portare alla chiusura i 6 OPG presenti in Italia. Un successo inatteso avvenuto a Codice penale sostanzialmente invariato, mediante il sistema di welfare di comunità all’interno del quale operano i Dipartimenti di Salute Mentale di cui fanno parte le REMS.
Queste hanno ereditato dall’OPG diversi aspetti di funzionamento compresi (quelli custodiali) e si sono connotate in relazione alle caratteristiche della psichiatria di comunità esistenti nei diversi territori.
Ne sono derivati diversi modelli: dalle REMS “diffuse” del Friuli fino al sistema polimodulare di REMS di Castiglione delle Stiviere passando, e sono la maggior parte, per strutture da 10-20 posti, con massimo due moduli. Un modello operativo che deve ancora assestarsi per quanto attiene a percorsi e strumenti.
Va ricordato ancora che la legge 81 ha determinato un ulteriore sviluppo del rapporto tra giustizia e sanità, tra sanità penitenziaria diventata parte del SSN con il DPCM 1° aprile 2008 e sanità generale ed infine ha prodotto un (ri)avvicinamento tra psichiatria clinica e psichiatria forense rimasta un mondo parte dopo la 180.
Un processo molto complesso nel quale si è visto fin da subito che il nuovo modello della legge 81 incentrato su territorialità, numero chiuso, assenza di contenzioni, mirasse ad un’impostazione clinico riabilitativa, fondata sulla priorità della cura, pur persistendo elementi di limitazione della libertà. Questo doveva aprire una riflessione sul senso della misura giudiziaria e della pena e al contempo imponeva una rinnovata visione della sicurezza e della tutela della comunità. Questo proprio in una fase di ripresa del populismo penale e delle richieste di neo-istituzionalizzazione.
Il nuovo approccio ha collocato le REMS al di fuori dell’area detentiva tanto che il DAP, fin da subito ha evidenziato la necessità di poter disporre di luoghi ove collocare persone con sopraggiunta infermità mentale in corso di detenzione, per valutazioni oltre che per una rapida applicazione della misura di sicurezza detentiva in luogo della custodia cautelare, da cui è derivata la situazione delle c.d. “detenzioni sine titulo” e più in generale della lista di attesa. A questo va aggiunto che le REMS diverse dagli OPG in molti casi sono diventate il riferimento per la magistratura, quando invece il sistema è incentrato sui DSM e il welfare di comunità.
Che la legge 81/2014 andasse completata con una riforma organica era ed è ampiamente riconosciuto. Più difficile è capire come. E cioè se con un radicale cambiamento del Codice penale, abrogando gli artt. 88 e 89 e con essi anche pericolosità sociale e misure di sicurezza e delineando un nuovo sistema di cura alternativo alla detenzione in Istituti di Pena, oppure nell’ambito del doppio binario con progetti di riforma delle misure di sicurezza secondo quanto scaturito dai Tavoli per l’esecuzione penale. O ancora secondo proposta Antoniozzi di abolire l’art. 89 e limitare alle psicosi l’art. 88 o la riforma avanzata dal coordinamento degli psichiatri toscani. Infine, se tornare all’OPG seppure diversamente denominati. Una linea nostalgica che si è manifestata anche verso gli OP.
Nessuna di queste previsioni è stata approvata, segno che il doppio binario è molto radicato nella cultura e nelle prassi ma che queste possono essere diversamente declinate in base alle spinte politiche.
Anche cambiamenti più limitati, che potrebbero essere assai utili sul piano operativo, non sono stati realizzati come ad esempio l’abolizione delle misure di sicurezza detentive provvisorie (art 206 c.p.) che riguardano il 40% delle persone in REMS e sono causa di circa l’80% delle detenzioni sine titulo, o quelle ex art. 219 misure di sicurezza detentive nei seminfermi che hanno già scontato una pena.
Nessun intervento è stato fatto per rendere flessibili le misure di sicurezza detentive (come le misure detentive) in analogia con la legge n. 67/2014 e promuovere le misure alternative. L’applicazione della giustizia riparativa D. lgs 150/2022 è ancora agli inizi. Nessun intervento nemmeno per dare coerenza anche terminologica al c.p. (all’art 222 è rimasto il ricovero in OPG quando questo è chiuso).
Il legislatore potrebbe agire cambiando le leggi sulle droghe (in Italia il 34% dei detenuti è in carcere per droga contro il 18% della media europea, e il 22% a livello mondiale) e sui migranti per ridurre la popolazione detenuta mediante la liberazione anticipata o indulto.
La Corte costituzionale è intervenuta con la sentenza 99/2019 e la 22/2022 ma anche queste norme non hanno avuto un particolare riscontro piano applicativo. D’altra parte, la Corte Costituzionale aveva anticipato la legge 81 con le sentenze 367/2004 e 253/2004 nel tentativo di adeguare l’impianto giuridico ai valori della 180.
Vi è stato l’accordo stato regioni del 30 nov. 2022 che presenta aspetti interessanti (Punti unici Regionali, protocolli ed al.) ma sembrano ancora distanti dalla piena applicazione.
Ora di fronte si tratta di prendere atto che dopo quasi 100 anni non pare prevedibile una riforma del doppio binario e nemmeno un cambio delle politiche sulle droghe e sui migranti. Ne deriva quindi il mantenimento della normativa, quando non un suo inasprimento (si pensi al Decreto Caivano) a seguito di interventi ispirati al giustizialismo penale.
Anche sul piano delle risorse non si assiste ad investimenti (è sempre più lontano il 5% della spesa sanitaria per la psichiatria) e al contempo vi è una richiesta del potere politico affinché la psichiatria sia sempre più presente nella gestione del conflitto sociale e dell’ordine pubblico ma anche della situazione degli istituti di pena.
Anziché riflettere sulla base di analisi accurate dei diversi problemi e su dati precisi (è stato azzerato l’Osservatorio nazionale) si assiste ad una drammatizzazione del problema della lista di attesa, del malato mentale che non deve restare in carcere come se il problema di farlo uscire dal carcere non dovesse essere preceduto da interventi preventivi per non farlo entrare.
Questo significherebbe evitare le semplificazioni, le relazioni lineari, disturbo mentale-psichiatria nel momento in cui si conosce bene la rilevanza dei fattori biopsicosociali, ambientali e culturali e dei determinanti della salute, compresa quella mentale.
La via della sanitarizzazione del disagio è comune a diversi ambiti, compreso quello detentivo. Ma ciò non gioverebbe ed è da perseguire una presa in carico complessa, multistituzionale e multimodale che è quella più efficace.
Al momento non vi sono proposte ufficiali del governo. Sono all’opera tavoli al ministero della salute e al Consiglio Superiore della Magistratura, nella Conferenza delle Regioni ma ben poco si sa e solo attraverso dichiarazioni molto sommarie.
La pubblicazione di analisi accurate con dati epidemiologici e l’apertura di un dibattito aperto tra tutte le parti dovrebbe essere il metodo. Questo consentirebbe di comprendere come sia la situazione delle diverse Regioni, l’entità della lista di attesa, quanti sono i detenuti sine titulo. I dati del sistema SMOP evidenziano un quadro molto variegato, e problemi concentrati in 5 regioni. Constatazione questa con la quale dovrebbe confrontarsi ogni proposta.
Ad esempio quella di aprire nuove REMS nazionali, nord, centro e sud (e le isole in particolare la Sicilia?), “ad alta sicurezza”, con la polizia penitenziaria, rischia di riaprire gli OPG, seppure con altri nomi, e soprattutto di distanziare queste strutture dai territori e dai DSM che si troverebbero in difficoltà nelle prese in cura e nel dare prospettive di dimissioni. Già le REMS regionali, laddove uniche presentano limiti nel garantire continuità dei percorsi, figuriamoci con quelle per macroregioni e per soggetti con maggiore pericolosità.
La questione dell’alta sicurezza apre un altro tema che è quella della sua revoca, di chi se ne assume la responsabilità, di chi, come e con quali mezzi può intervenire. Non sono questioni banali ma assai importanti sul piano operativo.
Tutte le proposte per rendere più efficienti i percorsi e appropriato l’utilizzo delle REMS sono a mio avviso da vedere con interesse. Se farlo per categorie diagnostiche, come proposto dalla Società di Psichiatria Forense, riguardo a disturbi della personalità o la psicopatia, o per condizione giuridica, ad es. misure detentive provvisorie, o per appropriatezza clinico-riabilitativa o altri, implica diversi approcci. Molto si può fare per migliorare efficienza, efficacia ed esiti.
Il timore espresso da più parti, specie dal mondo del diritto, che i DSM non si occupino in REMS di persone con disturbi della personalità autrici di reato lasciandole al solo contesto detentivo, va posto all’interno dei percorsi complessivi che si intende mettere in atto. La continuità con il prima e il dopo è fondamentale. I problemi a volte si concentrano tutti in un solo punto ed è perciò essenziale la loro decostruzione.
Quindi per quanto attiene alla cura, quali sono le condizioni per poterla realizzare? Questa passa per la relazione, il consenso e la motivazione. Anche il TSO s’inscrive entro questo perimetro. Lo stesso sui modelli da utilizzare per il trattamento dei disturbi della personalità, problema aperto a livello internazionale, per gli autori di reato o meno.
Si tratta quindi di un ambito difficile e nel quale si evidenziano i limiti della psichiatria e psicoterapia.
Diversi operatori attribuiscono alla legge 81/2014 il peggioramento drammatico della situazione del sistema salute mentale in Italia. È da questo punto che occorre vedere la situazione che potrebbe implodere dall’interno se gli operatori non vengono capiti, sostenuti ed aiutati. Il carico delle contraddizioni non può essere lasciato solo sulle loro spalle.
La spinta politica, il movimento culturale (Marco Cavallo ed al.), il sostegno dato da Stopog, dalla Conferenza e dal Commissario Corleone sono stati essenziali per accompagnare il percorso, sostenere le motivazioni, favorire le collaborazioni interistituzionali. Lo stesso anche i pronunciamenti del Consiglio Superiore della Magistratura e del Comitato per la Bioetica.
Un movimento che andrebbe riattivato, sia per affrontare i nodi critici sia per comprendere come sostenere l’evoluzione del sistema verso i diritti, il no restraint e la deistituzionalizzazione contrastando pratiche diverse, neoistituzionalizzanti, restraint e coercitive che rischiano di affermarsi perché si fa così nel resto del mondo, con tanto di Linee guida e avvallo “scientifico”. Perché diviene l’unico modo di fronteggiare stress, disperazione riannodando un rapporto con il potere e le attese ritenute prevalenti.
Un ineludibile snodo culturale, tecnico, scientifico, etico ma anche sociale e politico che a vario titolo, riguarda tutti.
La contraddizione cura/controllo sociale viene vissuta quotidianamente dagli operatori a fronte di richieste per tipologie di reato diverse (femminicidi, violenze intrafamiliari, stalking, sex offender). Sempre maggiore è la richiesta di percorsi di prevenzione e intervento precoce di cui il ricorso alle misure giudiziarie provvisorie è una delle manifestazioni epifenomenica. A questo si aggiunge, di fronte a questi problemi, della consapevolezza dell’inadeguatezza e della relativa inefficacia della tradizionale misura giudiziaria detentiva ritenuta tardiva.
Quindi, in termini generali ed in particolare per il malato psichico, sembra che il sistema si stia spostando dalla necessità di assicurare l’esecuzione di una misura di sicurezza al termine di un percorso processuale che esita nel proscioglimento (valutazione della non imputabilità, riconoscimento della pericolosità sociale, definizione della misura) ad una visione di tipo preventivo. Già nella fase delle indagini o comunque prima del processo si cerca di assicurare interventi terapeutici e sociali con risorse diverse da quelle degli istituti di pena ma con quelle del sistema di welfare ritenute più appropriate, evitando così, al contempo, inutili o dannose esperienze detentive e complessi iter processuali.
La legge 81 ha messo in crisi la precaria convivenza tra 180 e Codice penale del 1930 non solo relativamente al doppio binario (imputabilità, pericolosità sociale e misure di sicurezza) ma anche relative alla posizione di garanzia (art 40) e agli obblighi del medico psichiatra. Ha reso evidenti contraddizioni latenti che vanno affrontate. Non solo ma va riletta sia la concezione della cura e delle condizioni per la sua effettuazione sia quella della pena.
Uno dei punti critici che accomuna l’applicazione delle leggi 180 e 81, oltre alla questione delle risorse, e la riproposizione della delega di tutti i bisogni, dalla custodia alla cura e alla gestione della violenza, dei pazienti con disturbi psichici al solo sistema sanitario. Una delega poi perniciosamente aggravata dalla posizione di garanzia. Vi è ancora molto lavoro da fare affinché le persone con disturbi mentali possano avere una piena parità di diritti.[2]
L’idea centrale è quella del riconoscimento di una piena dignità al malato di mente, attraverso la responsabilità per i propri atti non è solo un aspetto giuridico ma una condizione della cura oltre a superare uno stigma molto radicato. La capacità della persona con disturbi mentali di autodeterminarsi assai raramente è completamente annullata in ragione della patologia mentre invece non solo se ne constata la presenza ma il reato è assai rappresentato nel mondo interno, ha bisogno di essere compreso (non giustificato) e di avere senso. Questo è essenziale per la cura ma anche per i percorsi di rieducazione, trattamento, conciliazione e riparazione da attuarsi predisponendo misure atte a evitare la carcerazione per il detenuto con disabilità psicosociale.”[3] Tutto questo al fine di garantire, nell’ipotesi di detenzione della persona con disabilità psicosociale, cure adeguate.
Si tratta di analizzare la pluralità dei bisogni e di prendere in carico, da parte di ciascuna istituzione, dei determinanti della salute secondo i principi della rilevabilità dei fenomeni, della loro modificabilità e infine del principio euristico, cioè dell’efficacia. In sostanza ogni intervento dovrebbe essere valutato alla luce di questi criteri partendo dagli elementi di base come identità, documenti e povertà. Occorre una leale collaborazione interistituzionale ed è essenziale una chiarezza dei ruoli che è fondamentale per evitare deleghe improprie, richieste di controlli impossibili, funzioni custodiali e coercitive, magari sotto la minaccia della posizione di garanzia. Questo dovrebbe anche portare al superamento della prassi per la quale ricoveri e dimissioni dalla REMS ma anche da Residenze sono decise dal magistrato e non dal medico. In sostanza ciascuna istituzione deve sviluppare con la persona un patto, possibilmente coordinato ma dotato di una propria autonomia e logica.
Siamo in grado di difendere quanto realizzato e andare insieme verso il futuro?
[1] Direttore Dipartimento Assistenziale Integrato Salute Mentale Dipendenze Patologiche Ausl di Parma
[2] Pellegrini P. Persone con disturbi mentali in ambito penale. Diritti e doveri: molto resta da fare! L’Altro, Anno XXIV, n. 2 Luglio Dicembre 2021, 25-30
Pellegrini P. e coll. Persone con Disturbi Mentali: diritti e doveri in ambito civile, L’Altro Rivista di Psichiatria Anno XXV, n. 1 Gennaio-Giugno 2022, 26-34
[3] La Corte costituzionale con la sentenza n. 73 del 24 aprile 2020 favorisce un’equilibrata considerazione delle condizioni patologiche della persona autrice di reato nella commisurazione della pena.