Sono passati sette anni dalla definitiva chiusura degli Opg, gli orrendi manicomi giudiziari, una rivoluzione gentile come l’ho definita. Grazie alla denuncia della Commissione Marino e alla condivisione del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che non esitò a qualificare quella realtà come “un orrore indegno per un paese che possa definirsi civile” si è realizzato un vero miracolo, cancellando le resistenze ammutolite di tanti psichiatri e giudici.
Di fronte a criticità e contraddizioni, determinate anche da una scelta che non ha affrontato il nodo del doppio binario del Codice Rocco, della non imputabilità, del proscioglimento per incapacità totale di intendere e volere, delle misure di sicurezza per pericolosità sociale, i nostalgici del manicomio stanno rialzando la testa.
Si è enfatizzata la cosiddetta lista d’attesa di prosciolti in attesa di un posto nelle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) e successivamente la presenza di prosciolti detenuti, senza titolo, in carcere. Questa pressione mediatica ha provocato un ricorso alla Corte Costituzionale da parte del Tribunale di Tivoli contro la legge 81 e infine la pronuncia di una sentenza della Consulta (n. 22 del 2022), ricca di luci e ombre, che conteneva un invito al Parlamento per mettere mano a un intervento di riforma complessivo per sciogliere ambiguità e contraddizioni che è finora stato disatteso.
L’esperienza delle Rems in larga parte si è caratterizzata con un segno positivo e con l’adozione di buone pratiche fondate su alcuni capisaldi irrinunciabili per garantire cure e progetti di riabilitazione: territorialità, numero chiuso, durata della misura di sicurezza legata alla previsione di pena per il delitto commesso e rifiuto della contenzione.
Soprattutto si è rivelato determinante il lavoro del personale tutto, psichiatri, psicologi, tecnici della riabilitazione, infermieri, segnato da passione ed entusiasmo per partecipare collettivamente a una impresa di civiltà e di umanità. Il numero delle dimissioni in questi anni è stato assai rilevante e il fatto che ormai nelle Rems le persone provenienti dagli Opg, rappresentino un dato insignificante, dimostra una efficace attività riabilitativa.
Sono convinto che questa rivoluzione richiede una azione di riforma coerente e radicale per radicare i contenuti di rifiuto dello stigma e di giocare la carta del superamento definitivo di ogni logica di espulsione e di internamento. Le leggi sono strumenti e non feticci, e vivono nel corpo della società, nella cultura che riescono ad affermare.
Andare dunque oltre è la condizione per non tornare indietro.
E’ il caso però di ricostruire i passaggi di una vicenda unica e che rende l’Italia un modello in Europa e nel mondo. Riprendiamo dunque il tema delle liste d’attesa, ammettendo pure che i dati più alti, quelli che indignano molti e portano a proporre dei vistosi passi indietro rispetto a questa rivoluzione, siano attendibili. Accettiamo che oltre 700 persone siano in lista d’attesa. Ciò significherebbe che le potenziali persone sottoposte a misure di sicurezza detentiva ad oggi sarebbero superiori al numero di presenti in OPG prima della riforma: quasi 1400 persone a fronte delle 1094 del 31.12.2012 e delle 1051 del 31.12.2013, nonostante un tasso di turnover molto elevato ed una durata media della misura di sicurezza detentiva inferiore.
Numeri di questo tenore, non potrebbero rappresentare un atto d’accusa per le REMS, che hanno un principio fondamentale, quello del numero chiuso. Piuttosto, dovrebbero farci riflettere sulle applicazioni delle misure di sicurezza detentive e sull’effettività del principio di extrema ratio.
La mia sensazione è che dopo la riforma sia cresciuto il numero di applicazioni delle misure di sicurezza detentive. Da un lato, infatti, vi è una tendenza di medio periodo all’incremento dei proscioglimenti, strettamente connessa con il fenomeno della patologizzazione e psichiatrizzazione crescente, dimostrato dall’ultimo Manuale statistico diagnostico dell’American Psychiatric Association (DSM-V). Dall’altro, l’impressione è che ci sia una maggior leggerezza – in netto contrasto con i principi della legge n. 81/2014 – nell’applicazione delle misure di sicurezza detentive, legata alla scomparsa del mostruoso OPG.
Questa impressione è confermata dai dati, che mostrano una stabilità nei numeri di misure di sicurezza detentive definitive ed una costante crescita di quelle provvisorie, che rappresentano ben il 50% del totale delle misure.
La psichiatrizzazione dei comportamenti e degli stati di salute nella migliore delle ipotesi conduce ad interventi di paternalismo solidarista, quando non scivola in un paternalismo a vocazione autoritaria. Per questo è importante riconoscere le contraddizioni e affermare la necessità di intervenire su quell’aspetto che già la commissione Marino individuava come prioritario: il nodo dell’imputabilità e superare così quel «guado» nella cui metà, per parafrasare l’espressione del prof. Marco Pelissero, ci troviamo oggi.
Dobbiamo affrontare la questione, sforzandoci di abbandonare una visione infantilizzante e muovendoci nella prospettiva dei diritti e delle garanzie fondamentali. Nel nostro codice, l’incapacità di intendere e volere deve essere valutata con riferimento al momento della commissione del fatto, ciononostante, la valutazione del reo come incapace di intendere e volere espande i suoi effetti e produce una incapacitazione permanente della persona.
Sul muro dell’ex manicomio di Trieste campeggiava la scritta «la libertà è terapeutica», realizzata nell’estate del 1973 dal Collettivo d’arte Arcobaleno, guidato dal pittore Ugo Guarino. Richiamando quello slogan, che è stato a lungo utilizzato dai movimenti basagliani, io sostengo che anche la responsabilità è terapeutica.
In quasi tutte le condizioni patologiche, permane un margine di consapevolezza, che deve essere rispettato, proprio per dare alla persona la possibilità di un’assunzione di responsabilità per l’atto compiuto.
L’abolizione del «binario speciale» di giustizia per i malati di mente, che propongo, è in linea con la visione promossa dalla riforma psichiatrica del 1978 e la sua approvazione ne rappresenterebbe un pieno compimento. Si riconoscerebbe infatti nel folle, in primo luogo, una persona e un soggetto di diritto, restituendo, così: diritti, libertà, responsabilità e dignità piena.
Questa proposta non sarebbe solo in linea con l’eredità della legge Basaglia, ma anche con le contemporanee convenzioni internazionali per i diritti delle persone disabili. Il rifiuto di binari giuridici speciali, basati sulla incapacitazione e la riduzione/negazione di responsabilità della persona con disturbo psichiatrico, infatti, è una scelta coerente con le previsioni della Convenzione ONU sulla disabilità[3], che sancisce che le persone disabili (tra cui quelle con «disabilità mentale») godano dei diritti e delle libertà fondamentali, senza alcuna forma di discriminazione fondata sulla condizione di disabilità.
Il Manuale di implementazione della Convenzione – redatto dalla World Network of Users and Survivors of Psychiatry – sottolinea che tutte le leggi discriminatorie devono essere eliminate dagli Stati, comprese quelle relative alla tutela e all’incapacità, che sono percepite come discriminatorie dalle stesse persone che sono utenti dei servizi psichiatrici.
La necessità di adeguamento della legislazione interna alla Convenzione, attraverso la rimozione della non imputabilità per vizio di mente, è evidenziata dal Comitato Nazionale di Bioetica, che definisce la non imputabilità per vizio di mente come «ultimo problema bioetico, rimasto intatto anche dopo la chiusura degli OPG» e qualifica le disposizioni che la regolano come forme di «legislazione speciale» per le persone con disabilità psicosociale, vietata dalla Convenzione sulle persone disabili, che al suo art. 12 prevede il godimento di pari diritti, compresa la capacità giuridica.
A fronte della commissione di un reato, questo il cuore della mia proposta, deve esserci un diritto al giudizio. Qualcuno potrebbe sostenere che il diritto al giudizio sia subordinato ad una capacità a prendervi pienamente parte, ma questo vale per altri soggetti, anche non definiti come pazienti psichiatrici. La garanzia di essere sottoposti a giudizio solo se capaci di prendervi parte coscientemente è stata infatti mantenuta intatta con la nostra proposta.
Un giudizio, certamente, può comportare una condanna e una conseguente pena, ma dobbiamo iniziare a rimuovere dal nostro immaginario quell’equivalenza automatica e spontanea tra pena e carcere. Devo ammettere che le obiezioni fondate sul timore della carcerizzazione del folle mi sembrano talvolta pretestuose. L’OPG era un carcere ed era diretto da un membro dell’amministrazione penitenziaria, eppure ha avuto una lunga storia, senza che si levassero troppe voci di indignazione. E allo stesso tempo la massiccia presenza di persone con disturbi psichiatrici in carcere, oggi, non mi sembra sollevi grandi levate di scudi.
La proposta è stata discussa nel corso di un seminario organizzato dalla Società della Ragione il 18/19 settembre 2020 e di due successivi webinar. Il dibattito ha condotto a pensare soluzioni nuove e originali che possono essere valutate consultando la relazione e l’articolato della proposta di legge n. 1119, depositata nuovamente alla Camera dei Deputati dall’on. Riccardo Magi, il 26 aprile 2023.
La proposta non intende essere di pura testimonianza ma essere un elemento fondamentale della discussione che ha già coinvolto grazie alla Società della Ragione centinaia di uomini e donne, psichiatri, giuristi, avvocati, operatori e militanti delle associazioni impegnate sul terreno della riforma del Codice Rocco a novanta anni dalla sua entrata in vigore.
Se invece rimarrà come una bottiglia lanciata in mare, potremmo dire con Leonardo Sciascia che rappresenta un lascito a futura memoria. Se la memoria ha un futuro o meglio se la politica ha un futuro.