Ho ascoltato le parole del padre di Giulia Cecchettin al funerale della figlia. Gino Cecchettin ha scelto di dare un senso alla storia tragica della figlia allacciandola alle tante storie tragiche di donne uccise dai loro compagni. Lo stesso aveva fatto la sorella di Giulia, rivendicando il suo lutto come pubblico e politico, non solo privato.
È come se, per ambedue, il dolore personale abbia dato la forza per scavare, con determinazione e sguardo più acuto alle radici del “male” sociale della violenza contro le donne: “per trasformare questa tragedia in una spinta al cambiamento” ha detto il padre. Un cambiamento c’è già stato. Lo dimostra la risposta forte delle manifestazioni per la giornata internazionale della violenza sulle donne. Ancora, sono stati la sorella e il padre di Giulia a ribadire i punti fermi in un dibattito a dir poco erratico sul patriarcato.
Il più importante è che la violenza sulle donne è questione di uomini (“mi rivolgo per primo agli uomini”). Perché gli uomini fanno fatica ad accettare che le donne non siano più soggette al loro desiderio. O, forse è meglio metterla così, non sanno e insieme non vogliono confrontarsi col desiderio dell’altra.
Se la libertà femminile ha posto fine al patriarcato, la risposta violenta riconferma quanto di intrinsecamente violento c’era in quella struttura di potere. Una violenza che appare tanto più assurda e sconcertante in quanto non più “contenuta” nel “vecchio” ordine patriarcale, dei ruoli maschile e femminile.
Una violenza che non di rado sfocia nel suicidio -ha fatto bene Ida Dominijanni a sottolinearlo (Internazionale, 23/11) “come se, privato del possesso di una donna, un uomo non solo si sentisse autorizzato a sopprimerla, ma non potesse sopravviverle”: poiché incapace di trovare ragioni d’esistenza fuori dalla “gabbia” dell’identità maschile tradizionale.
Non c’è altro orizzonte possibile nel rapporto di un uomo con una donna, non c’è futuro – questo sembra essere il loro messaggio. Un altro modo per negare il messaggio che le donne, proprio sottraendosi al dominio maschile, hanno implicitamente inviato: che è possibile e auspicabile un rapporto non basato sul potere dell’uno sull’altra ma sulla differenza, per “rivolgersi all’altro e all’altra come differente, prestando attenzione e ascolto a quello che è differente” (Maria Luisa Boccia, intervista Unità, 25/11).
Viene in mente il gesto di Giulia, che ha continuato a frequentare l’ex compagno anche dopo la fine della relazione amorosa. Il no netto a un amore inaccettabile non implicava per lei rifiutare “l’attenzione e l’ascolto” all’uomo che era stato suo intimo per un periodo di vita. Il significato di questa sua scelta non cambia, anche se le è costata la vita.
Nell’esplosione di distruttività (e di autodistruttività) del femminicidio, nell’aggrapparsi all’identità patriarcale “fuori tempo massimo” (nota ancora Dominijanni), c’è un’insensatezza spaventosa. Da qui la tentazione di imboccare la via più facile, quella di etichettare il femminicida come “mostro”, il criminale particolarmente odioso, da cui per primi gli uomini vogliono prendere le distanze.
Così “mostro” da stimolare in alcuni la tentazione di toglierlo di mezzo dalla comunità dei “normali” con il facile escamotage della “infermità mentale”. Così diventa chiaro come la “mostrificazione” sia il dispositivo principe per tirarsi fuori dal tanto che c’è di responsabilità collettiva. E per alimentare il filone retorico del “più carcere” come soluzione principe di governo delle nostre società.
I femminicidi sono tanti, in relativa stabilità, come documenta uno studio dell’università di Torino dal 2016 al 2021, commentato da Pietro Pellegrini (il Vaso di Pandora, 5 dicembre). Come previsto, nell’84,5% dei casi la tipologia di relazione fra la vittima e l’uccisore è “intima e intensa”. Questa caratteristica, insieme alla stabilità/cronicità del fenomeno, confermano che il femminicidio affonda le radici in un modello preciso di relazione uomo/donna nel campo agitato del post patriarcato.
Dunque, al di là della risposta estrema del femminicidio, tutti gli uomini sono chiamati a interrogarsi sul loro rapporto con donne che non sottostanno più al loro desiderio; e a cominciare a parlare di questo, per contribuire al discorso pubblico. Non solo. La parola che nasce dalla comprensione di sé è preziosa anche nel privato. E’ premessa per prendere posizione nella relazione con l’altra/o e predisporsi all’ascolto. E anche al conflitto, che è parte dell’incontro con la/il differente da sé.
Il conflitto può risolversi nel sangue, lo sappiamo bene in questi tempi di guerre oltre che di femminicidi. All’opposto, ci si può anche ritrarre dalla relazione proprio per non affrontare il conflitto. Dobbiamo stare attente al senso del tramonto della sessualità, un tema che pure è stato centrale nel discorso pubblico e nel vissuto delle scorse generazioni.
Un sintomo di scivolamento verso la non-relazione fra i sessi è l’accettazione diffusa, o quanto meno la scarsa riflessione collettiva sulla nuova modalità del “procreare senza sesso”, inaugurata dalle tecnologie della riproduzione.
In mezzo, tra il sangue e il non contatto fra uomini e donne (ben raffigurato nel dipinto The lonely ones di Edvard Munch), sta la gestione di quel conflitto: faticosa e fallimentare se sfocia in un continuo corpo a corpo di sopraffazione dell’altra e di auto- annichilimento del sé maschile, come avviene oggi per tante coppie.
Ma c’è anche un altro modo, seppur faticoso anch’esso, di venire a patti con l’altra/o, in una continua mediazione fra il desiderio e il sentire dell’uno/a e quello dell’altro/a: la quale può permettere la sopravvivenza e il dispiegarsi maturo della relazione. Il post patriarcato vede, per fortuna, anche questo esito. Per merito delle donne, soprattutto.
Ma forse anche gli uomini ci mettono del loro, seppure con più avarizia e minore consapevolezza. Di questa mediazione vorremmo sapere di più, seguendo una traiettoria che dal personale procede verso il politico della nuova cultura da più parti invocata. Ancora una parola, sulle possibili conseguenze della presa in carico della questione “violenza sulle donne” da parte degli uomini. Per cominciare, le donne, le potenziali vittime, dovrebbero per parte loro essere scaricate di pesi impropri.
Non mi convincono gli inviti pressanti a “riconoscere” i primi segnali dell’uomo Violento con la maiuscola, se non altro perché le “mele marce” stanno in un paniere dove il baco alligna. Dunque, è una identificazione difficile, che nell’immediato rischia di risolversi nella colpevolizzazione della donna che, se non “riconosce” per tempo quei segnali e, peggio, se indugia in quel rapporto “malato”, dimostrerebbe di essere ancora sotto il giogo maschile.
Anche la denuncia del partner maltrattante andrebbe ricondotta al suo corretto significato: va perseguita non tanto per il valore simbolico di “rifiuto” del rapporto violento- le donne non hanno bisogno di questo, tantomeno oggi – ma in quanto strumento di effettiva difesa dal rischio di ulteriori violenze.
Qui sta la debolezza della risposta sociale, fra la pressione sulle donne perché denuncino (e la loro matura risposta positiva) e l’incapacità del sistema giustizia a difenderle.
Come diventano operative le nuove leggi? Su quali priorità si muovono gli apparati di repressione nell’applicazione delle norme? Quale impulso riescono a dare le tante donne oggi impegnate nel sistema giustizia in direzione di una efficace prevenzione della violenza di genere?
Sappiamo che la notte dell’uccisione di Giulia un giovane uomo, richiamato dalle sue grida, non si tirò indietro e chiamò i carabinieri.
Che non dettero seguito alla segnalazione, decidendo di impiegare le loro forze altrove (per sedare una rissa, pare). Ecco, appunto. Ripartiamo da qui.
Vai al dibattito sul femminicidio sul sito de la Società della Ragione.
[Articolo di Grazia Zuffa pubblicato su l’Unità del 9 dicembre 2023]