Intervento di Pietro Pellegrini[1]
L’articolo di Grazia Zuffa sul “caso Cospito”[2] evidenzia molto bene la complessità delle questioni. Come psichiatra mi pare emergano alcuni punti molto interessanti e di difficile soluzione, sui quali una riflessione può essere utile.
1) In primo luogo si ripropone il tema del rapporto della vita della persona con lo Stato.
Fino a pochi decenni fa lo Stato riteneva, per la guerra ad esempio, di poter pienamente disporre della vita dei cittadini, giungendo a giustiziare i disertori. In molti paesi è ancora così. L’obiezione di coscienza al servizio militare è stata fortemente osteggiata e solo nel clima sociale e politico degli anni 70 si è affermata.
Sta tornando l’idea di poter disporre della vita dell’altro se vi è un interesse dello Stato che è prevalente?
Se questo non c’è la vita dell’altro può non contare? Si pensi ai senza tetto. Dai dati della Federazione Italiana Organismi per le persone senza dimora[3], i decessi dei clochard in Italia sono in costante aumento: dai 212 nel 2020, ai 251 nel 2021 fino ai 387 nel 2022.
Questo non sembra chiamare in causa la responsabilità dello Stato, né l’attenzione del welfare, della magistratura o dell’opinione pubblica. L’abbandono è accettato per le “vite di scarto”.
A meno che i senza tetto non diventino “disturbanti” il decoro delle zone centrali delle città, dalle quali allontanarli. L’ abbandono ha luoghi precisi dove si può realizzare. Luoghi dove il degrado e la disgregazione possano assorbire la paura, il disgusto e la repulsione che spesso suscitano i clochard, ambienti lontani anche all’occhio della legge.
Ai migranti e i naufraghi, contro ogni norma internazionale ed etica, viene negato o reso più difficile il salvataggio. Anche in questi giorni, due gravi naufragi con circa 80 morti ciascuno sono stati rapidamente dimenticati al pari di storie drammatiche di annegamenti di bambini, neonati insieme a coloro che disperatamente hanno cercato di salvarli. Una condizione che riguarda tutti se si afferma la privatizzazione della sofferenza, se la solitudine diviene la condizione più frequente dei cittadini, isolati in case e in ambienti sempre più a rischio, se si afferma l’indifferenza.
2) L’idea che il cittadino possa confliggere con lo Stato per affermare un diritto, sostenere una causa, viene messa in discussione. In particolare se lo fa in modo collettivo non autorizzato o tramite il proprio corpo, considerato “come arma”, testimonianza di un’istanza, di una lotta non violenta. Ciò interroga perché il corpo appare nella sua essenzialità e, specularmente, afferma il “re è nudo”.
Lo Stato si sente sfidato e ricattato? O viene interrogato nella sua fondamenta, nell’ essenza del patto sociale, nella trama profonda della sua costituzione? Un’occasione per mostrare il lato umanitario, colto, profondo, l’ autorevolezza, la forza recettiva, di ascolto, di comprensione (cum prendere) e di compassione, un’occasione per mostrare le sue abilità. La vita della persona si confronta con le ragioni di Stato (o di una religione). Temi antichi, di cui ancora oggi Antigone è mirabile testimonianza.
Stato come “istituzione” che viene fatto coincidere con “nazione” rispetto alla quale vi sono amici e nemici. Dei quali si giudicano le intenzioni e le ragioni, la bontà e la pericolosità. Uno Stato che impone le sue leggi, senza discussioni? Oppure sa bilanciare in un ragionevole equilibrio diversi interessi, garantendo salute e sicurezza? Uno Stato che assicura diritti intangibili, in base ai quali tollerare differenze, il confronto e il conflitto tramite i quali arricchirsi, evolvere sul piano sociale e della realizzazione delle persone?
3) In ambito giudiziario si possono applicare cure obbligatorie e coercitive, invocando la responsabilità dell’Istituzione alla quale la persona è affidata, secondo norme diverse rispetto a quelle degli altri cittadini? Non credo sia la via da perseguire e come scrive Grazia Zuffa, la responsabilità non va vista solo per l’aspetto negativo e non per quelli positivi, cioè per rendere effettivi i diritti e sicura l’esecuzione penale.
In questo quadro il dramma del numero dei suicidi negli Istituti di Pena, 85 lo scorso anno, è nella sua complessità, nel valore polisemico di un gesto così estremo che è sempre anche un messaggio per tutti noi e per le nostre Istituzioni. Se vi sono componenti sanitarie, psicologiche e psichiatriche, non meno rilevanti sono gli aspetti sociali, relazionali, familiari nel determinare quella perdita di speranza e di futuro che correla con gli atti autosoppressivi. Un messaggio anche per il mondo della giustizia, sul senso della carcerazione preventiva, della pena e sulle modalità di esecuzione. Questa nel suo farsi vivente, vissuta, acquista nella prassi molteplici significati e raggiunge la profondità della persona e come può rieducarla, recuperarla, al contempo può sconvolgere, svuotare nella disperazione e talora nell’umiliazione. La personalizzazione della cura e della pena, entrambe oggetto di un nuovo patto può essere la via per il recupero, la riparazione possibile e la riconciliazione.
In questo quadro, preoccupa il ritorno all’idea che le cure possano/debbano essere coercitive specie per le persone private della libertà, ancor più se con disturbi mentali. Lo ha scritto la Corte Costituzionale nella sentenza n. 22/2022 chiedendo tuttavia una definizione legislativa. Una posizione giustamente prudente anche perché prima degli interventi medici coercitivi, vi sono chiare indicazioni derivanti da l. n. 180/1978, l. n. 18/2009 e l. n. 219/2017 per la quale “il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura.” Ed è la dimensione dialogica, in ogni condizione, che raggiunge “l’essenza della persona nella sua dignità e libertà”[4] dalla quale può emergere una relazione evolutiva.
Uno Stato in grado di prendere atto dell’autodeterminazione della persona che è sempre anche ridefinizione di relazioni reali e vissute, si avvicina ai cittadini, resta al loro fianco nella sofferenza anche nel dissenso, nel conflitto. Ancora nella fase, inevitabile, che precede la morte, perché la vita sia degna di essere vissuta.
Accogliere la sofferenza e il dolore dell’altro, nelle condizioni estreme, implica una sensibilità che vada oltre i convincimenti politici di parte, per raggiungere il core dell’umano, la pietas e la saggezza profonda e misteriosa della vita. E’ solo con questo atteggiamento si può comprendere come affrontare il “rischio vita”, rendendolo per quanto possibile reversibile, costruendo una continuità tra salute e malattia, come condizioni sempre co-esistenti, seppure in forme e misure diverse. Una visione olistica, nella quale fattori biologici, psicologici, sociali, culturali e ambientali, filosofici, religiosi, scelte di vita sono sempre presenti, inseparabili e reciprocamente in relazione. Un insieme di fattori sui quali intervenire contemporaneamente, prima di ogni azione coercitiva.
In questa direzione vanno anche le neuroscienze che evidenziano come vi sia una sovrapposizione tra le regioni neurali attivate dal dolore fisico e dal dolore sociale. Altre ricerche hanno dimostrato che la compassione e il “perdono” riescono a ridurre in modo consistente l’attivazione delle regioni neurali implicate nel dolore.
Un ‘insieme di considerazioni delle quali tenere conto quando si va ad indagare e a cercare di separare vita e malattie. Infine tutta la medicina evidenzia che senza il consenso, la libertà (almeno un nucleo) e la partecipazione della persona la cura non è possibile. In altre parole essa si fonda su un’alleanza, che si deve pazientemente costruire per dare realizzazione sia all’art. 32 sia all’ art. 27 della Costituzione.
[1] Direttore Dipartimento Assistenziale Integrato Salute Mentale Dipendenze Patologiche
[2] Zuffa G. “Nordio. Etica e diritti” https://www.societadellaragione.it/caso-cospito-cnb/
[3] (https://www.agi.it/cronaca/news/2023-01-17/clochard-morti-roma-sant-egidio-19676226/#:~:text=Anche%20se%20un%20censimento%20della,anno%20e%20gi%C3%A0%20venti%20in)
[4] Vedasi nota 2.