Articolo di Maria Grazia Giammarinaro per il dibattito su Femminicidio e non imputabilità.
Concordo con Milli Virgilio, che ha messo a tema la questione di fondo della non imputabilità come causa di assoluzione e dell’effetto deresponsabilizzante sul malato. Tranne che in pochi casi veramente estremi (ne capitò uno anche a me) in cui il delirio permea la psiche del soggetto fino al punto di spezzare qualsiasi suo rapporto con la realtà, nella maggior parte dei casi un/a paziente psichiatrico/a ha la possibilità di rendersi conto dei suoi gesti e del loro disvalore, sia pure in modo non continuativo e talora distorto. Da giudice penale (e non da psichiatra) posso dire che questa è la mia esperienza, e che ho utilizzato con molta parsimonia l’istituto dell’incapacità totale. Ho talora utilizzato il vizio parziale perché si trattava dell’unico strumento (totalmente sbagliato peraltro quanto ai presupposti e anche al trattamento penale se alla pena in misura ridotta si aggiunge anche la misura di sicurezza) che mi consentiva, escludendo la misura di sicurezza, di mitigare la pena in ragione dell’infermità, e tuttavia di indicare al/la paziente un legame con il suo gesto delittuoso, che altrimenti rischia di diventare una specie di buco nero della coscienza. Le mie sono riflessioni a partire dalla mia esperienza, ma sono anche il frutto di una intensa collaborazione con Assunta Signorelli, che come psichiatra è stata perita in molti miei processi. In conclusione, l’intera materia della sofferenza psichiatrica in relazione alla commissione del fatto delittuoso dovrebbe essere ridiscussa e riformata, come peraltro si chiede da tempo.
Per quanto riguarda la sentenza di Brescia, fermo restando che vanno studiate le consulenze psichiatriche, e dando per il momento per buona la diagnosi di incapacità totale, mi sembra che il vero errore sia quello di qualificare lo stato mentale dell’autore come “delirio di gelosia”, così legittimando una sorta di parallelismo con il movente di gelosia. La cultura patriarcale tradizionale continua a suggerire che la gelosia attenua la responsabilità, e questo ‘suggerimento’ continua infatti a serpeggiare sotto mentite spoglie nella giurisprudenza. Nel caso di Brescia, se c’era uno stato di delirio, si doveva parlare di delirio e basta. Anche se il delirio può assumere il linguaggio della gelosia, si tratta di due stati soggettivi completamente diversi. Il delirio è uno stato gravemente patologico, e colui/colei che è in preda al delirio non ha più alcuna connessione con la realtà. La gelosia invece non è una malattia, ma un sentimento che nasce dalla pretesa di possesso dell’altro/a, e che in quanto tale può diventare il movente cosciente e volontario della violenza.
Il fatto che la sentenza di Brescia abbia creato un artificioso accostamento tra motivo di gelosia e delirio di gelosia comporta la conseguenza inevitabile che la sentenza sarà invocata come precedente per convalidare l’impostazione patriarcale tradizionale. D’altra parte, ormai, la funzione della motivazione è irrimediabilmente compromessa. Il comunicato ‘preventivo’ è un’assurdità, e spero non diventi una prassi, anche perché vincola le/i giudici e incide negativamente sulla stessa possibilità di formulare liberamente e secondo coscienza la motivazione, senza subire la pressione dell’opinione pubblica.
In ogni caso, ritengo che le reazioni immediate, aggressive e non informate sui social media siano espressione di quel “femminismo punitivo” che Tamar Pitch ha messo a tema. La formulazione di giudizi rabbiosi sui social costituisce una variante peggiorativa della deriva moralista che ha investito anche una parte del femminismo. Si tratta a mio parere di una deviazione molto grave, che inconsapevolmente alimenta la peggiore forma di populismo, quello della gogna mediatica, con la conseguenza inaccettabile che chi viene di volta in volta identificato/a come ‘colpevole’ non ha alcuna possibilità di difendersi.
Questa deviazione finisce per convalidare e rafforzare ulteriormente l’approccio securitario secondo cui la priorità è la protezione della società da rischi troppo spesso immaginari o artificiosamente amplificati: ideologia della punizione e paternalismo nei confronti delle vittime ne sono i corollari.
Personalmente, non sono certo indulgente nei confronti di chi commette violenza contro le donne, e credo che la sanzione debba essere severa. Occorrono anche azioni volte a contrastare gli aspetti strutturali della violenza di genere, che derivano dal persistente squilibrio di poteri, e generalizzare percorsi certi di empowerment e inclusione sociale delle donne che hanno subito violenza. Ma l’ideologia della punizione non è la risposta politica a questi problemi, e non ha niente a che vedere con la libertà e i diritti delle donne.
Comments are closed.