La sentenza della Corte Costituzionale n. 22/2022 sulle REMS: un commento dello psichiatra
Pietro Pellegrini[1]
Sarebbe un grave errore se si vedesse nel sistema delle REMS il sostituto dell’OPG. Se la misura di sicurezza detentiva a “spiccato contenuto terapeutico” viene ad essere una forma di trattamento coatto, rischia di far regredire le pratiche più avanzate basate sul consenso. Ne deriva anche un modello di REMS chiusa e coercitiva, meramente custodiale.
La Corte Costituzionale rimanda al legislatore ma è essenziale una riforma coraggiosa che cancelli il “doppio binario” e promuova l’imputabilità, e quindi il principio di responsabilità sia per la terapia sia per la sicurezza. Le misure di sicurezza detentive definitive vanno abolite e sostituite da pene la cui esecuzione dovrà tenere conto delle condizioni di salute della persona. Il reato è sempre molto presente nel suo mondo interiore e su questo occorre lavorare con gli strumenti della psichiatria di comunità..promuovendo gradualmente l’assunzione di responsabilità, di forme di elaborazione, di riparazione possibile, di riconciliazione, di ristoro.
Il 27 gennaio 2022 la Corte Costituzionale ha depositato la sentenza n. 22/2022 relativa alla costituzionalità della legge n. 81/2014 sollevata dal Tribunale di Tivoli.
La Corte dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale sulla base della necessità di non determinare “l’integrale caducazione del sistema delle REMS, che costituisce il risultato di un faticoso ma ineludibile processo di superamento dei vecchi OPG; e produrrebbe non solo un intollerabile vuoto di tutela di interessi costituzionalmente rilevanti ma anche un risultato diametralmente opposto a quello auspicato dal rimettente, che mira invece a rendere più efficiente il sistema esistente, mediante il superamento delle difficoltà che impediscono la tempestiva collocazione degli interessati in una struttura idonea”.
Si confermano quindi le leggi n. 9/2012 e n. 81/2014 che sono state attuate con grande sforzo interistituzionale soprattutto grazie ad un impegno straordinario dei Dipartimenti di Salute Mentale (DSM) e al coraggio e motivazione degli operatori i quali hanno realizzato una “rivoluzione gentile”, dato speranze e futuro, cura e prospettive a chi le aveva completamente perdute. I dati di funzionamento e di esito a oltre 6 anni di attività sono significativi e nel complesso positivi.
Come noto la legge n. 81 è stata attuata a codice penale e a prassi giudiziarie invariate e si è più volte invocata una riforma organica dell’intero sistema.
Quindi è del tutto apprezzabile il richiamo della Corte al legislatore. Infatti, nella sentenza vengono evidenziate numerose criticità e frizioni con i principi costituzionali e diverse contraddizioni che vengono rimandate al legislatore senza per altro fissare un termine entro il quale questo dovrebbe operare per risolverle, forse in relazione alle pluralità di competenze, nazionali e regionali e delle numerose istituzioni coinvolte. Ne consegue la necessità di definire quali siano i punti da normare in forza di leggi ed altri invece come quelli tecnico scientifici, da vedersi in ambiti diversi, Linee guida, buone prassi, protocolli. Un sistema “multilivello” dove opera l’interazione tra i diversi ordinamenti, nazionale e internazionale, e pratiche tecnico-scientifiche ed etiche.
Quale scenario?
La riforma è stata attuata cercando di creare collegamenti, collaborazioni, nuove prassi, punti di incontro, protocolli, tavoli e cruscotti tra i diversi attori come per altro auspicato da Consiglio Superiore della Magistratura e Comitato Nazionale per la Bioetica. Un’attuazione nell’operatività che ha creato buone prassi ma anche evidenziato diversi limiti ed un’applicazione a “macchia di leopardo”.
La costituzione dell’Osservatorio e i tavoli di coordinamento presso Agenas hanno certamente migliorato gli aspetti gestionali ma occorre chiedersi se non occorra superare nodi cruciali (imputabilità, pericolosità sociale) andando oltre il doppio binario.
Come psichiatra credo sia importante sottolineare la complessità e la rilevanza del tema della salute mentale per tutte le persone e non solo per gli autori di reato, in quanto ogni norma specifica rimanda al “patto sociale”. Se si perde di vista questo riferimento universale ho l’impressione che la linea intrapresa e il dibattito possano portare ad una grave regressione dell’intero sistema e ad una violazione dei diritti. Un’eterogenesi dei fini che sarebbe paradossale proprio perché unanimemente s’intende andare in tutt’altra direzione.
Si è posta l’attenzione sulla lista di attesa per l’accesso alle REMS la cui entità è stata definita da 670-750 persone di cui 61 detenute “sine titulo”. Una situazione ritenuta intollerabile, gravemente lesiva dei diritti delle persone e della sicurezza delle vittime per cui occorre una soluzione immediata.
La lista di attesa, generata in larga parte da misure di sicurezza provvisorie, da un sistema penitenziario in crisi che legge i propri problemi come dovuti ad un utilizzo improprio della detenzione, terminale di emarginazione e conflitti, alla luce di leggi come quella sull’uso di sostanze o sui migranti. Resta quindi totalmente nell’ombra lo stato degli Istituti di Pena, delle Articolazioni tutela salute mentale che pure sono arrivate anche recentemente all’attenzione dell’opinione pubblica (Sestante di Torino).
La salute mentale deve essere vista in un quadro unitario con i necessari percorsi in continuità con il territorio ove realizzare adeguate misure alternative.
Il dibattito sulla dotazione dei posti REMS rischia di non affrontare questioni come le misure di sicurezza detentive provvisorie improvvisamente disposte per la persona fino ad ora arrestato in carcere e la natura di estrema ratio della REMS.
La Corte Costituzionale sostiene quanto auspicato da più parti cioè la necessità di aumentare gli investimenti nei servizi di salute mentale all’interno dei quali operano le REMS e che sono essenziali per assicurare i percorsi di dimissione e di inclusione sociale. Tanto che ad oggi si stimano in circa 6.000 le persone affette da disturbi mentali con misure giudiziarie seguiti dai DSM ed il 70% circa sono ospiti delle Residenze psichiatriche.
Nella sua analisi la Corte Costituzionale sembra avvalorare la lettura in base alla quale il sistema va implementato per poter operare un’immediata collocazione della persona senza far venire meno il principio della territorialità e forzare il numero chiuso delle REMS. Un principio affermatosi grazie al coraggio dei direttori delle REMS/DSM che resta un punto fermo per garantirne il buon funzionamento e la qualità delle cure.
Parlare di collocazione immediata significa che non dovrebbe esistere lista di attesa. Un obiettivo certamente condivisibile e che dovrebbe valere non solo per gli autori di reato ma per tutti i cittadini. È sotto gli occhi di tutti come i diritti alla salute, alla casa, al lavoro siano soggetti a lunghe liste di attesa nel sistema pubblico, aggirabile in base al reddito. Una grave e tollerata iniquità.
A parte questi aspetti che certamente influiscono nel determinare le priorità viene da chiedersi se la condizione giudiziaria debba prevalere sempre anche rispetto a quelle delle altre persone magari in condizioni urgenti bisognose di ricovero negli SPDC e di maggiore gravità clinica necessitanti di interventi riabilitativi residenziali?
Nei sistemi dove il divario domanda e offerta è molto ampio si pone la questione delle priorità, dell’appropriatezza dei percorsi, dei criteri di gestione delle liste di attesa che devono far parte di un sistema complessivo di monitoraggio dei percorsi, fino alle dimissioni e agli esiti.
Certamente dovrebbe esservi posto per tutti o meglio un percorso di cura costruito su accoglienza, ascolto non giudicante, responsabilità, fiducia.
Il tema dei diritti/doveri diviene essenziale ai fini del patto sociale, del benessere di comunità. Questo rimanda a culture e prassi interistituzionali nel momento in cui si chiede di programmare servizi adeguati, posti residenziali e REMS, tema che vede ampie differenze regionali.
Poi vi è la questione degli strumenti, ad esempio dei progetti con Budget di Salute ed altri che è possibile attivare sulla base del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Un sistema innovato nel suo complesso può essere in grado di dare risposte di ampio respiro.
In questo lavoro occorre unire tutte le forze orientate al dialogo, capaci di costruire nuovi percorsi, come si è dimostrato in molti contesti nei quali magistrati, psichiatri, forze dell’ordine, DAP, UEPE, sindaci hanno saputo trovare modalità collaborative molto efficaci. Buone prassi che possono essere di riferimento e sulle quali si può fondare l’attività del ministero della Giustizia cui la Corte Costituzionale riconosce un ruolo più significativo. Se questo implica una riserva di legge, nella pratica, il dialogo, le prassi della magistratura, i tempi, le misure devono essere adeguate e raccordate al nuovo sistema di cura e giudiziario di comunità.
Serve quindi una riforma degli strumenti, dei codici penale e di procedura penale.
Quale concezione della cura?
Se l’auspicato completamento della riforma riporterà le REMS nell’ambito della sfera penitenziaria ben presto se ne registrerà la trasformazione in mini-OPG.
La forza delle REMS è nell’essere parte del sistema di welfare di comunità e nel garantire i percorsi terapeutico riabilitativi individualizzati che si tratta di migliorare e rendere più efficaci affrontando e risolvendo i problemi sociali, familiari e di vita delle persone che in base alla legge 81/2014 non dovrebbero rilevare ai fini della valutazione della pericolosità sociale.
Sarebbe un grave errore se si vedesse nel sistema delle REMS il sostituto dell’OPG e non si cogliesse invece la portata rivoluzionaria della legge 81/2014 che impianta un sistema di cura e giudiziario di comunità.
Questo è tanto più rilevante per affrontare i reati intrafamiliari, le violenze e i femminicidi.
Si tratta quindi di andare oltre al modello delle REMS attuali, per altro molto diverse tra di loro, in favore di un cambiamento dell’ottica dell’intero sistema della salute mentale e di welfare vista la rilevanza dei determinanti sociali della salute.
Questo evita che vi sia la deriva giudiziaria e psichiatrica dei problemi relazionali, familiari e sociali. La riforma va completata con servizi e strumenti di comunità non con nuovi ed inutili contenitori.
E’ assai preoccupante e assolutamente non condivisibile come viene configurato la misura di sicurezza detentiva e l’assegnazione alla REMS. Relativamente a quest’ultimo punto la Corte ritiene che “l’assegnazione a una REMS – così come oggi concretamente configurata nell’ordinamento – non può essere considerata come una misura di natura esclusivamente sanitaria”.
“L’assegnazione in parola consiste, anzitutto, in una misura limitativa della libertà personale – il che è evidenziato già dalla circostanza che al soggetto interessato può essere legittimamente impedito di allontanarsi dalla REMS. Durante la sua esecuzione possono essere praticati al paziente trattamenti sanitari coattivi, ossia attuabili nonostante l’eventuale volontà contraria del paziente. Essa si distingue, peraltro, dal trattamento sanitario obbligatorio per malattia mentale disciplinato dagli articoli da 33 a 35 della legge 23 dicembre 1978, n. 833 (Istituzione del servizio sanitario nazionale), esso pure di carattere coattivo, giacché:
– presuppone non solo a) una situazione di malattia mentale (un «vizio di mente», secondo la terminologia del codice penale), ma anche b) la previa commissione di un fatto costitutivo di reato da parte del soggetto che vi deve essere sottoposto (art. 202 cod. pen.), nonché c) una valutazione di pericolosità sociale di quest’ultimo (ancora, art. 202 cod. pen.), intesa quale probabilità di commissione di nuovi fatti preveduti dalla legge come reati (art. 203 cod. pen.);
– è applicata non già dall’autorità amministrativa con successiva convalida giurisdizionale, come nell’ipotesi disciplinata dall’art. 35 della legge n. 833 del 1978, bensì dal giudice penale, con la sentenza che accerta il fatto (art. 222 cod. pen.) ovvero in via provvisoria (art. 206 cod. pen.);
– sulla sua concreta esecuzione sovraintende il magistrato di sorveglianza (art. 679, comma 2, cod. proc. pen.; art. 69, comma 3, ordin. penit.), che «[p]rovvede al riesame della pericolosità ai sensi del primo e secondo comma dell’art. 208 del codice penale, nonché all’applicazione, esecuzione, trasformazione o revoca, anche anticipata, delle misure di sicurezza» (art. 69, comma 4, ordin. penit.), e dunque può sempre revocare l’assegnazione ad una REMS ovvero sostituirla con la meno afflittiva misura della libertà vigilata (sentenza n. 253 del 2003), con correlativo affidamento dell’interessato ai servizi territoriali per la cura della salute mentale”.
Non mi permetto certo di confutare nel merito giuridico le affermazioni della Corte Costituzionale e su quale base per la persona con disturbi mentali non dovrebbero valere la legge 180/1978 e la legge 219/2017 sul consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento ma viene da chiedersi come possa imporsi sulla base di un provvedimento penale, la misura di sicurezza detentiva, una cura (Quale? Come? Per quanto tempo?) creando una situazione che non esiste per nessun’altra persona condannata o libera. Una gravissima e inaccettabile discriminazione del malato mentale, contraria a mio avviso a molte norme internazionali, nazionali ma anche alle conoscenze scientifiche e alle pratiche basate sui diritti e la recovery.
Quel che più rileva è che non può esservi cura senza il consenso, la partecipazione attiva della persona. La cura in psichiatria è complessa ed implica interventi biologici, farmacologici, psicoterapici e sociali, da attuarsi nella responsabilità e libertà.
Quindi nel definire il dove e il come dell’esecuzione della misura di sicurezza occorre tenere presenti i sopracitati elementi altrimenti torneremo ad un sistema custodiale, dove la “cura” è privazione della libertà e psicofarmaci coattivamente imposti. La cura è tutt’altro.
Se la misura giudiziaria diviene una nuova forma di trattamento obbligatorio e coatto la via per una nuova grande istituzionalizzazione rischia di essere riaperta. Sarà invocata da familiari, vicini di casa, servizi sociali, psichiatrici, forze dell’ordine, magistrati, psichiatri tutti in difficoltà di fronte ai reati intrafamiliari, relazionali e sociali. Complesse azioni preventive, prassi articolate su percorsi di cura specifici rischiano di passare in secondo piano rispetto a nuove pratiche d’internamento. Non credo che la Corte Costituzionale auspichi questa prospettiva.
Ancora la psichiatria viene totalmente sottomessa alla giustizia, e fatta rientrare nell’ambito dell’esecuzione penale, una posizione inaccettabile ed antiterapeutica.
La psichiatria deve essere libera, autonoma e definire un proprio patto di cura separato da quello della giustizia che deve operare dando un chiaro messaggio rispetto all’agito antigiuridico ed individuando i provvedimenti di propria competenza volti a prevenire la commissione di nuovi reati. La psichiatria deve essere organizzata per PDTA (Percorsi Diagnostico Terapeutico Assistenziali) personalizzati e per intensità di cura e solo lo psichiatra deve poter decidere ammissioni e dimissioni. A ciascuno il suo e non a caso in altre sedi si è parlato di “doppio patto” della persona, uno per la giustizia ed uno per la cura.
Del resto, anche la Corte Costituzionale scrive: “La natura “ancipite” di misura di sicurezza a spiccato contenuto terapeutico che l’assegnazione in una REMS conserva nella legislazione vigente comporta, peraltro, la necessità che essa si conformi ai principi costituzionali dettati, da un lato, in materia di misure di sicurezza e, dall’altro, in materia di trattamenti sanitari obbligatori” cioè sulla legge 180/1978.
Ed è proprio sulla definizione di questo “doppio patto” che deve essere chiaro il mandato di ciascun attore, differenziando quanto compete alla sanità e quanto invece a giustizia ed ordine pubblico.
Diversamente se la misura di sicurezza detentiva a “ spiccato contenuto terapeutico” viene ad essere una forma di trattamento coatto, rischia di far regredire le pratiche più avanzate basate sul consenso, di riassorbire in sé la libertà vigilata specie se l’obbligatorietà della cura del paziente vede persistere la posizione di garanzia dello psichiatra.
Ne deriva anche un modello di REMS chiusa e coercitiva non come Residenza psichiatrica, aperta in grado di interagire con la comunità della quale fa parte integrante e dove il confine è permeabile, non identificabile in quello fisico ma quello del progetto terapeutico, cui la persona ha diritto. Si tratta di una modulazione della libertà e non una mera limitazione o privazione.
Senza questi riferimenti si rischia di riproporre un modello meramente custodiale. Il dissenso e il rifiuto delle cure devono essere parte di un lavoro comune che a mio parere va affrontato secondo le procedure e le garanzie del TSO in luoghi dedicati come gli SPDC dove può realizzarsi l’appropriata intensità di cura.
Se si parla di nuove misure di sicurezza detentive allora va superata definitivamente ogni forma di rigidità che ora le connota prevedendo ai sensi della legge 67/2014 come per la detenzione tutte le misure alternative possibili.
Riformare il sistema
Del tutto condivisibile è “La necessità che una fonte primaria disciplini organicamente tale misura a livello statale, stabilita dalla Costituzione, risponde d’altronde a ineludibili esigenze di tutela dei diritti fondamentali dei suoi destinatari, particolarmente vulnerabili proprio in ragione della loro malattia.”
Questo deve valere per il consenso alle cure, i diritti di autodeterminazione relativamente alla salute e non solo a “prassi dei trattamenti per la cura della malattia mentale non infrequentemente si fa uso delle pur controverse pratiche della contenzione fisica o farmacologica, che rappresentano forse le forme più intense di coazione cui possa essere sottoposta una persona. Gli artt. 13 e 32, secondo comma, Cost., unitamente all’art. 2 Cost. – che tutela i diritti involabili della persona, tra cui la sua integrità psicofisica – esigono che il legislatore si assuma la delicata responsabilità di stabilire – in ogni caso in chiave di extrema ratio ed entro i limiti della proporzionalità rispetto alle necessità terapeutiche e del rispetto della dignità della persona – se e in che misura sia legittimo l’uso della contenzione all’interno delle REMS, ed eventualmente quali ne siano le ammissibili modalità di esecuzione”.
Un richiamo, quello sulla contenzione, che deve tenere conto che il 75% delle REMS non la pratica ed è andata molto avanti nel creare prassi fondate sulle conoscenze scientifiche più avanzate e sul consenso visto che i TSO riguardano una minoranza di pazienti.
La Corte Costituzionale rimanda al legislatore ma è essenziale che in ambito politico, culturale, giuridico e psichiatrico e con la partecipazione di utenti e società civile si trovi un nuovo, avanzato ed equilibrato punto d’incontro che sia in grado di proporre una riforma coraggiosa che cancelli il doppio binario e promuova l’imputabilità, e quindi il principio di responsabilità sia per la terapia sia per la sicurezza. Le persone vanno riconosciute imputabili e giudicate per l’atto commesso, devono avere il diritto al processo, cioè a confrontare con la legge, espressione della comunità, le proprie convinzioni e motivazioni. L’ascolto partecipe dà diritto alla parola, al punto di vista della persona, riconosciuta interlocutore degno di attenzione nella sua sofferenza e non infantilizzato o reso alieno, quando invece possiamo comprenderlo e costruire insieme un futuro comune.
“In ogni fase va assicurato il diritto alla salute e l’incapacità a stare in processo per disturbi mentali deve essere superata mediante il supporto linguistico, culturale e professionale. Proprio laddove sono maggiori i problemi della comunicazione, andranno fatti sforzi per ripristinarla in quanto fattore essenziale per la regolazione degli affetti, del mondo interiore e dei comportamenti. La riforma deve portare anche all’abolizione della pericolosità sociale del malato mentale perché non ha fondamenti scientifici.
Possono essere al più valutati i fattori di rischio e protezione. Le misure di sicurezza detentive provvisorie e definitive vanno abolite.
Le misure provvisorie si basano su una presunzione di colpevolezza anziché di innocenza e non creano le migliori condizioni per la cura, in quanto il disturbo in molti casi è del tutto presunto e quindi da accertare sia in relazione all’imputabilità sia per quanto attiene la cura, per assicurare il diritto alla salute.
Le misure di sicurezza detentive definitive vanno abolite e sostituite da pene la cui esecuzione dovrà tenere conto delle condizioni di salute della persona. Il reato è sempre molto presente nel suo mondo interiore e su questo occorre lavorare con gli strumenti della psichiatria di comunità, tenendo conto del contesto culturale, religioso, filosofico, e promuovendo gradualmente l’assunzione di responsabilità, di forme di elaborazione, di riparazione possibile, di riconciliazione, di ristoro.
Un percorso doloroso, difficile, complesso e impegnativo che la psichiatria cerca di realizzare con la persona e la sua famiglia, all’interno del quale il ruolo della giustizia e della comunità sono fondamentali. Si sono create misure di cura e giudiziarie di comunità, basate sulla reciproca responsabilità, dove la valutazione non è oggettivante ma di sistema, è centrata sulla persona e sul suo contesto, nel quale sono attori anche il sistema curante, della giustizia, del sociale, dell’ordine pubblico. Non il proscioglimento e la misura di sicurezza che sospendono, isolano e non fanno altro che aumentare la confusione, l’incomprensione della persona e della comunità, ma un altro scenario che fondi la convivenza sullo sviluppo della responsabilità, nella sua accezione etimologica di “res pondus”, del farsi carico delle persone e delle situazioni, di portare insieme il senso delle esperienze umane, anche quelle estreme, di vite coesistenti. Nel legame inestricabile che lega reciprocamente la qualità della cura, della convivenza e della sicurezza.”[2]
[1] Direttore Dipartimento Assistenziale Integrato Salute Mentale Dipendenze Patologiche Ausl di Parma
[2]Pietro Pellegrini, Giuseppina Paulillo, Cecilia Paraggio, Clara Pellegrini, Lorenzo Pelizza, Emanuela Leuci Persone con disturbi mentali in ambito penale. Diritti e doveri: molto resta da fare! L’Altro, Anno XXIV, n. 2 Luglio Dicembre 2021Gennaio-Giugno 2021, 25-30
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