Alla ricerca di una sentenza giusta, che tenga in chiaro la gravità del reato ma non congeli, se non peggiori, lo stato patologico del criminale.
Giusi Furnari Luvarà
Come non concordare con quanto scrive Maria Grazia Giammarinaro in Femminicidio e non imputabilità, nell’importante dibattito aperto nel sito de La Società della Ragione, sul caso della sentenza che ha interessato l’uxoricida di Brescia? Il caso ha riportato in discussione la non imputabilità per <<incapacità di intendere e di volere>> al momento del crimine. Su questo tema La società della Ragione è già da tempo impegnata, sensibile alle tematiche di civiltà giuridica, sociale e umana, ma anche alla delineazione di una cultura della differenza che si interroga sul vigente status del patriarcato.
Supportate da esperienza, professionalità, cultura e buon equilibrio le considerazioni avanzate da Giammarinaro sono centrali per mettere a fuoco almeno due questioni sostanziali: l’una che investe la domanda sulla presenza della cultura patriarcale nella giurisprudenza –e più ampiamente nella nostra realtà socio-mondana; e l’altra che mette a nudo l’inquietante immaturità culturale presente nelle file del femminismo, e/o nella voce delle donne, tanto da poter parlare con preoccupazione di populismo penale femminile e femminista –come in un articolo privo di infingimenti, ben ponderato e arguto scrive Susanna Ronconi.
Riguardo alla sentenza, Maria Grazia Giammarinaro, da giudice penale che ha gestito casi di giudizio per infermità mentale, chiarisce la complessità del giudizio di chi deve pronunziarsi su un caso di prospettata non punibilità per incapacità di intendere e volere al momento del crimine.<<Ho talora utilizzato il vizio parziale di mente- scrive Giammarinaro- perché si trattava dell’unico strumento (…) che mi consentiva, escludendo la misura di sicurezza, di mitigare la pena in ragione dell’infermità, e tuttavia di indicare al/la paziente un legame con il suo gesto delittuoso, che altrimenti rischia di diventare una specie di buco nero della coscienza>>
Di tale accorgimento di metodo, mi colpisce l’interesse a dare seguito a una sentenza giusta, tenendo conto non tanto e non solo della questione sicurezza, o del ‘risarcimento’ che la pena esige dal criminale per il reato commesso, quanto il tenere in chiaro la gravità del reato per il legame che questo ha con il crimine commesso; e ciò affinché la non imputabilità non si tramuti in un congelamento – se non addirittura in un peggioramento- dello stato patologico del criminale.
In vista di una concezione della pena come riabilitativa, pur tenendo in conto le ragioni sociali che invitano a proteggere il consorzio umano da atti delittuosi, dovendo la pena mirare al recupero individuale e sociale del/la paziente criminale, il giudice penale potrà muovere seguendo un criterio di giustizia che rispetti la ratio iuris della non punibilità dell’atto per ragioni psichiatriche senza sciogliere il reo dalla sua colpa. Un po’ come suggerisce l’episodio evangelico dell’adultera, dove si colpisce il peccato e non il peccatore, lasciando in vita il legame tra la colpa e il crimine in vista di una riconciliazione con se stessi e con il mondo e per una ricomposizione dell’assunzione di responsabilità della propria direzione di azione.
L’altro tema, investe più direttamente il caso di Brescia, e implica delle riflessioni sullo status della “qualità” dell’azione del femminismo e della voce (più o meno sparsa e individuale) delle donne. Per il caso Brescia, nella sentenza si parla di non punibilità a causa dello stato di delirio di gelosia, di cui era affetto il reo al momento della efferata uccisione della moglie. L’accostamento dei due termini delirio/gelosia rivela, ciò che vorrebbe, forse, nascondere: la presenza nella giurisprudenza di una cultura patriarcale che certamente fa fatica a modificarsi, nonostante il cammino legislativo e le significative presenze al femminile nel mondo sociale, culturale e civile. <<Nel caso di Brescia, – scrive Giammarinaro – se c’era uno stato di delirio, si doveva parlare di delirio e basta. Anche se il delirio può assumere il linguaggio della gelosia, si tratta di due stati soggettivi completamente diversi. Il delirio è uno stato gravemente patologico, e colui/colei che è in preda al delirio non ha più alcuna connessione con la realtà. La gelosia invece non è una malattia, ma un sentimento che nasce dalla pretesa di possesso dell’altro/a, e che in quanto tale può diventare il movente cosciente e volontario della violenza.>>.
Il combinato quasi in unico lemma delirio/gelosia significa che si è all’interno di un retaggio culturale patriarcale che suggerisce di pensare alla donna in termini di possesso.
Contro tale sentenza si sono levate le voci di tante donne e di associazioni femminili e femministe (tanto da provocare l’invio da parte del ministro della giustizia di una ispezione ministeriale!!). Voci per certi versi opportune, se fossero state ragionevolmente argomentate. Il loro scomposto ed eccessivo giustizialismo chiede proprio a noi donne, per prime, una pausa di riflessione. Ci pone delle domande circa la maturazione o meno della coscienza civile, della consapevolezza culturale delle donne; e sull’intreccio tra questo processo di maturazione e il permanere della cultura patriarcale di cui –come dicevamo- si trova traccia nella sentenza dell’uxoricida di Brescia.
L’assalto femminista e femminile alla sentenza è stato, ben colpendo nel segno, indicato da Maria Grazia Giammarinaro come la <<variante peggiorativa della deriva moralista che ha investito anche una parte del femminismo>> e anche come la <<peggiore forma di populismo>> spinta da una sorta volontà << di fare giustizia di piazza>>.
Di populismo penale femminile e femminista ha parlato, come dicevo, in un interessante intervento, Susanna Ronconi. Ronconi mette in guardia contro il <<dilatarsi del penale simbolico>> come arma per combattere la violenza contro le donne e i femminicidi. Il giustizialismo gridato ed esibito con i muscoli contro la violenza sulle donne tradisce e svia l’azione della trasformazione culturale delle strutture sociali e culturali del patriarcato. È quest’ultimo invece a dover essere il bersaglio verso cui far convergere l’azione delle donne, come siglato nella Convenzione di Instanbul.
La violenza si combatte in ogni sua forma e in ogni dove si manifesti. La volontà di potenza, l’esercizio del domino, il principio proprietario consumati contro le donne ma anche contro ogni soggetto in quanto fragile vanno combattuti non invocando un giustizialismo reprimente (senza con ciò indebolire l’azione penale che è rivolta all’individuo criminale) , ma intaccando i sistemi di dominio culturali, sociali, radicati nelle trame delle strutture sociali e nella millenaria tradizione patriarcale. Come scrive Susanna Ronconi la violenza di genere è il <<prodotto della cultura e della società patriarcali>> e va affrontata << come una realtà che non si riassume nella somma di tanti atti delittuosi individuali contro le donne, ma si profila come fattore strutturale delle nostre società, e come tale va combattuta e cambiata>>.
Occorrono allora azioni positive che mettano in campo processi di orientamento culturale per favorire l’incremento della consapevolezza di se stessi, tale da contrastare le insidie del permanere di una cultura di possesso e di dominio, spesso purtroppo ancora presente anche in larghi strati della popolazione femminile. Bisogna, come osserva Giammarinaro, << contrastare gli aspetti strutturali della violenza di genere, che derivano dal persistente squilibrio di poteri, e generalizzare percorsi certi di empowerment e inclusione sociale delle donne che hanno subito violenza>> Bisogna ribadire che <<l’ideologia della punizione non è la risposta politica a questi problemi, e non ha niente a che vedere con la libertà e i diritti delle donne>>; ma è necessario che le donne si impegnino ad agire con lucidità di pensiero e chiare direttive di giudizio, affermando nel loro agire comportamenti di identità di genere coniugati secondo una stratificazione culturale tali che destrutturi il patriarcato. Sia nel pubblico che nel privato.
In generale, credo sia necessario storicizzare la questione femminile; credo che nella fase in cui siamo, in questo essere andate oltre la fase della rivendicazione illuministica dei diritti formali, le donne devono interfacciarsi con sguardo aperto e plurale – non soltanto in una visione binaria- con il tempo che viviamo. Bisogna che le donne abbiano la capacità culturale e di azione per coinvolgere il tessuto sociale, politico a fare i conti con l’altro e con l’alterità che ci attraversa, seguendo l’inclinazione a coniugare in armonia pensiero-volontà attraverso la pratica di un “giudizio” -espressione della kantiana “Facoltà del Giudizio” (Urteilskraft), di un giudizio ben fondato. Di contro a questo appello si erge un vero pericolo: il farsi cultura della voce dei social. Non vorrei chiudere con un riferimento banale: con il fare riferimento all’imperversare sui mezzi di comunicazione – oltre che sui social- di una popolazione maschile e femminile, senza età né differenza di generazione, che trascorre il tempo nel dannoso chattare che fa “opinione” (e in democrazia l’opinione è il ciò che mi piace (o mi è utile), al di là di ogni ragionevole e socratico dialogare).
C’è davvero tanto da fare, ma certamente una via maestra è parlare sempre con chiarezza e buone argomentazioni!