Già molto si è scritto sul ddl governativo “recante disposizioni in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario”, capolavoro di populismo penale che mette insieme le figure del più stereotipato immaginario securitario per compiacere l’anima più forcaiola del paese a colpi di nuovi reati, vecchi reati riformulati e pene aggravate. Un’orgia di anni e decenni di galera a colpire detenuti, occupanti di case, cittadini che manifestano, persone che fanno la questua, immigrati e richiedenti asilo. Quell’esercito di “nemici perfetti” sociali della cui repressione penale da sempre si pasce la destra, con buona pace di due ovvietà: che il deterrente rappresentato da pene più alte non funziona a prevenire alcunché, e che i problemi alla base dei comportamenti sanzionati in buona parte avrebbero una miglior gestione se affrontati sul piano delle politiche sociali e del rispetto dei diritti. Ma il “diritto penale massimo” che connota l’attuale destra non parla il linguaggio della razionalità né quello dell’evidenza, figurarsi quello dei diritti.
Nelle pieghe del ddl, un articolo, “Disposizioni in materia di esecuzione penale in caso di pericolo, di eccezionale rilevanza, di commissione di ulteriori delitti”, al di là della formulazione neutra del titolo, è in realtà una norma di genere. È mirato alle donne giudicate o condannate che siano in gravidanza o madri di figli e figlie al di sotto di un anno di età e modifica le norme oggi vigenti circa la possibilità di accedere a misure alternative al carcere o alla detenzione domiciliare, per evitare sia la separazione madre-figlio/a in così tenera età o nascitura/a, sia l’incarcerazione dei bambini e delle bambine accanto alla madre. Questa misura minima di civiltà diventa selettiva e la sua applicazione restrittiva rispetto all’oggi. Cosa fa la differenza, per il governo? Il “pericolo di commissione di ulteriori delitti”, cioè la probabilità della recidiva. Probabilità: la norma ha intanto il chiaro intento di orientare la magistratura ad una attuazione a maglie strette delle alternative, e mettere la libertà e la responsabilità del giudice “sotto tutela” di un indirizzo restrittivo a norma di legge. Ma soprattutto ha il fine di discriminare e di punire con una sofferenza aggiuntiva determinati gruppi di donne e i loro bambini e bambine. Chi ha più facilmente comportamenti recidivi? Non certo chi commette gravi crimini, ma chi commette reati minori: il carcere delle donne è affollato di “pesci piccoli”, di donne che hanno pene tra uno e tre anni. Le donne dei piccoli reati sono soprattutto quelle dei reati contro il patrimonio, quelli della povertà e dell’esclusione, che nelle statistiche rappresentano la percentuale maggiore. Quelle che sono e saranno recidive perché, e fino a che, la loro condizione sociale non avrà una chance. Sono spesso le donne Rom, sono spesso le donne che usano droghe intensivamente, sono le donne più povere. A leggerla con una lente sociale e di genere, questa norma ha un profilo sia classista che razzista: del resto il governo esplicitamente ha indicato il bersaglio, le borseggiatrici Rom. Così appartenenza etnica e povertà disegnano la quota di sofferenza imposta alle madri e ai più piccoli e la quota di stigma e discriminazione.
Sono passati meno di sei mesi da quando la campagna nazionale Madri Fuori, dallo stigma e dal carcere, si è mobilitata in tutta Italia contro la volontà del governo Meloni di bloccare nuove norme a favore delle detenute madri e, di contro, varare una legge per revocare la potestà genitoriale a tutte le donne con sentenza definitiva sopra i 5 anni. Ma, come si dice, al peggio non c’è limite: il presidio dei diritti delle donne e di chi è detenuto/a non conosce tregua.
[Articolo di Susanna Ronconi pubblicato su il manifesto del 22 novembre 2023]