Ricordiamo il grande giurista Valerio Onida con un estratto dal suo ultimo scritto, la Prefazione al libro Contro gli ergastoli, a cura di S. Anastasia, F. Corleone, A. Pugiotto, Futura 2021. Dalla rubrica di Fuoriluogo su il manifesto del 18 maggio 2022.
La storia – legislativa e soprattutto giurisprudenziale – dell’ergastolo nel nostro sistema penale ha conosciuto due tappe fondamentali in senso evolutivo e positivo, anche a prescindere dal dibattito, sulla necessità o sull’opportunità di superare decisamente lo stesso istituto della condanna a pena prefissata senza fine: quella che nella documentazione dell’amministrazione carceraria si traduce nella indicazione di fine pena “per il 9999”.
La prima tappa si è realizzata con il riconoscimento, ormai consolidato da tempo, del fatto che la Costituzione (soprattutto attraverso la clausola dell’art. 27, secondo cui le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato) esige che la pena detentiva non possa in nessun caso essere in pratica senza fine.
Questa condizione è ormai affermata in parallelo anche dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, secondo cui l’ergastolo non viola la clausola convenzionale (art. 3 CEDU) del divieto di trattamenti inumani e degradanti a patto che sia prevista e garantita la possibilità di liberazione, al maturare di condizioni, di tempo e di sostanza, che debbono essere stabilite e note al condannato già al momento della condanna.
La seconda tappa di questo percorso, ancora non del tutto compiuta, consiste nel riconoscimento che, per tutti i reati e quindi anche per quelli contemplati dall’art. 4-bis ord. penit., non è conforme a Costituzione (e alla CEDU) e non può dunque essere mantenuta legittimamente in vita, una disciplina che subordini l’applicazione della liberazione condizionale alla condizione indefettibile che il condannato collabori con la giustizia per la scoperta e la repressione dei reati di criminalità organizzata in cui è coinvolto, salvo solo che la collaborazione risulti impossibile (per essere ormai l’accertamento dei reati e delle relative responsabilità interamente avvenuto) ovvero in concreto irrilevante per la marginalità della posizione del condannato in questione, e sia dunque “inesigibile”.
Lo ha fatto per prima la Corte di Strasburgo, nella sentenza Viola c. Italia del 2019. Ma lo ha poi fatto, finalmente, la nostra Corte costituzionale, dapprima con la sent. n. 253/2019, che ha fatto cadere la presunzione assoluta con riguardo alla concedibilità di una misura extramuraria come il permesso premio, e da ultimo con l’aperto riconoscimento della necessità di abbandonare in generale l’assolutezza della presunzione in questione, con riguardo al caso della domanda di liberazione condizionale.
Quest’ultima tappa, come si sa, non è ancora del tutto compiuta, avendo la Corte rimandato al 10 maggio 2022 la decisione finale, con l’ord. n 97/2021.
L’accertamento giudiziale dell’avvenuto distacco e della mancanza di un rischio grave, concreto ed effettivo (che non potrebbe mai essere affermato solo “in astratto”) di una ricostituzione dei legami con la criminalità organizzata dovrà essere compiuto dalla magistratura di sorveglianza competente sulla base di tutti gli elementi concreti di cui può disporre.
Si trattava di una logica di tipo “militare”: quella del “nemico” catturato e condannato che poteva liberarsi dalla prigionia solo “passando” senz’altro nelle file dell’avversario a sua volta “armato” (lo Stato) che lo aveva fatto prigioniero. Ma la durata delle pene e il loro termine, in esito ad un percorso di risocializzazione, non possono, in base ai principi costituzionali e di umanità, conformarsi a questo tipo di logica, dimenticando che reati, pene e percorsi di recupero riguardano “persone”, non pedine di un esercito.
In ogni caso, l’ergastolo “ostativo” per i non collaboranti, nel senso in cui fino ad oggi l’abbiamo considerato, non ha più cittadinanza nel nostro ordinamento.