“Essere tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitali”: un requisito legittimo per limitare l’accesso di malati irreversibili affetti da sofferenze insopportabili all’aiuto medico al suicidio?
Il documento Amicus Curiae della Società della Ragione
La Società della Ragione ha presentato una opinione scritta quale Amicus Curiae nel giudizio di legittimità costituzionale introdotto dall’ordinanza emessa dal GIP del Tribunale di Firenze in data 17.1.2024.
La questione ruota intorno alla possibilità del paziente (colpito da malattia irreversibile e sottoposto a sofferenze intollerabili, capace di autodeterminarsi) di ottenere aiuto al suicidio medicalmente assistito. Oltre ai requisiti sopracitati, la Corte, con sentenza 242/2019, ha introdotto un altro requisito per far sì che l’assistenza al suicidio non sia colpita da sanzione penale: il fatto che la persona sia “tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale”.
La Società della Ragione supporta la tesi sostenuta dall’ordinanza di Firenze, secondo cui il requisito per cui il paziente debba essere “tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitali” introduce una disparità di trattamento fra malati con la stessa gravità di quadro clinico e con lo stesso livello insopportabile di sofferenza, poiché il tipo di trattamento è legato alla variabilità delle diverse patologie e dei casi concreti (violando così l’art.3 della Costituzione).
Inoltre, al di là delle particolari tipologie trattamentali, il fatto stesso di porre un trattamento quale limite per l’accesso al suicidio medicalmente assistito contrasta con l’autodeterminazione del paziente nel campo delle terapie (riconosciuta dalla legge 219/2017), compreso il rifiuto delle terapie salvavita.
Pretendere che, per ottenere un lecito aiuto a morire, la persona sofferente sia “tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale” non solo limita la libertà del paziente nell’accettare o meno le terapie, ma può costringerlo ad acconsentire a questi trattamenti, al solo scopo di soddisfare in maniera formalistica il requisito richiesto per la depenalizzazione dell’aiuto al suicidio. In tal modo, proprio quando si vorrebbe ampliare il campo di autodeterminazione del paziente con la possibilità di aiuto al suicidio, si attua all’opposto un restringimento della sua autodeterminazione in campo terapeutico.
Tutto ciò non può che tradursi in nuova sofferenza e lesione della dignità nel morire.