Il mese di marzo di quest’anno è importante per il passato e il presente delle politiche di tutela della salute mentale. L’undici marzo di cento anni fa nasceva Franco Basaglia, il 16 marzo del 2024 ricorre il primo anniversario della morte di Franco Rotelli.
Basaglia e il gruppo che con lui lavorava (Franca Ongaro, Franco Rotelli e gli altri) hanno abbattuto le mura dei manicomi e insieme denunciato la spoliazione umana e civile dei reclusi perpetrata in nome della “scienza” psichiatrica. Il rientro nella comunità di quei reclusi e di quelle recluse ha comportato per loro anche la restituzione della dignità (umana e civile). Nasce da qui l’idea di distinguere fra salute mentale e psichiatria: due termini che sono stati accostati nella volgarità del linguaggio, ma che probabilmente non c’entrano niente l’un con l’altro.
Sono parole di Franco Rotelli, che si possono leggere nel “Dialogo con Franco Rotelli”, di Giovanna Gallio e Benedetto Saraceno, pubblicato dalla Conferenza Basaglia e dal Centro Documentazione Trieste 1971 (Trieste, 2023). Per questa occasione di memoria, scegliamo di citare brani del pensiero di Rotelli sull’emancipazione della salute mentale dalla psichiatria e su come possa prendere forma una strategia di salute mentale di comunità.
Questa è la politica di salute mentale che non ha niente a che fare con i servizi psichiatrici
Il tema è: forse si guardato troppo alla psichiatria e troppo poco alla salute mentale. Guardare alla salute mentale significa andare ben oltre. Vuol dire guardare a come sta la gente e quindi travalicare i confini di malattia-non malattia. Vuol dire parlare di cosa fa star bene e di cosa fa star male le persone, e come cercare di fare qualcosa per farle stare meno male. Di questo si parla quando parliamo di salute mentale. Invece parlare di psichiatria vuol dire infilarsi in una storia abbastanza infame che, da qualunque parte la prendi, non produce nulla. Allora ben venga la critica alla cosiddetta psichiatria delicata, la psichiatria buona e tanto più quella violenta e becera. Ben venga la critica a tutte le forme di psichiatria, perché se l’orizzonte di riferimento è la salute mentale, le psichiatrie sarebbero meglio che sparissero dal campo.
Io non penso che esista un sapere specifico sulla malattia, o che esista un sapere specifico sulla follia…Mentre sull’uomo inteso come corpo credo che si possa sapere molto e moltissimo, sull’uomo inteso come soggetto io non riesco a immaginare come si possa presumere di sapere. Certo si possono sapere delle cose. Ma che io possa sapere di te, avere una scienza del soggetto mi sembra delirante.
Detto questo, credo che ci siamo attardati anche troppo a non fare politiche di salute mentale: vale a dire occuparsi un po’ meno della psichiatria e dei servizi psichiatrici e cercare molti più alleati fra gli artisti, tra gli uomini e le donne di cultura, tra gli operai e le operaie, tra gli abitanti delle città e dei quartieri, tra le mamme e le famiglie, tra le associazioni- in altre parole nel mondo della vita.
Per lenire il dolore o ridurre il mal stare di molte persone, devi mettere in movimento tutto ciò che può esserci di buono intorno a loro: contrastare tutto ciò che c’è di cattivo e attivare tutto ciò che c’è di potenzialmente buono. Questa è la politica di salute mentale che non ha niente a che fare con i servizi psichiatrici. I buoni servizi psichiatrici possono essere una sorta di trincea che serve a dire: da qui non si passa, non si va oltre, perché non dobbiamo fare del male alla gente. Chiunque arrivi fin qui, e cioè a un punto di crisi e di difficoltà non sostenibili, si ferma, nel senso che non passa in un manicomio o in una struttura di segregazione. Passa alla peggio in un servizio di salute mentale, un luogo dove si cerca di fare delle cose buone ma sapendo che è “alla peggio” dal punto di vista della persona. Chi sta male non va in un Servizio di Diagnosi e Cura dove viene legato, ma alla peggio viene in un servizio dove si cerca di capire insieme cosa è meglio fare e di quali aiuti la persona ha bisogno. Questo può essere il contributo che un servizio pubblico dovrebbe offrire, immaginando tuttavia che non è il servizio a dare delle risposte. Quel che il servizio può e deve fare, dopo aver svolto una ricognizione dei problemi, è attivare dei “terzi” che – quelli sì- possono dare un aiuto concreto nel trovare delle soluzioni. Questi terzi sono tanti, sparsi un po’ ovunque. Sono moltissimi se li si va a cercare, e io credo che, se Trieste ha fatto qualcosa, è perché in qualche misura questa ricerca l’ha sempre fatta. L’ha fatta con Ugo Guarino e molti altri artisti, l’ha fatta con gli studenti e i volontari, l’ha fatta con le cooperative. L’ha fatta anche con il laboratorio da cui è uscito Marco Cavallo, con il teatro e con tanti altri laboratori la cui storia non è stata ancora ricostruita e raccontata.
In altre parole, Trieste ha fatto questa ricerca attivando mille risorse che non erano quelle specifiche del servizio psichiatrico pubblico, ma erano risorse altre – educative, espressive, ludiche, comunicative, culturali, imprenditoriali- presenti nella città e nei territori, o collegate a progetti di formazione di operatori e volontari provenienti da altre regioni e paesi del mondo. Se Trieste ha funzionato è perché è stata un motore di queste risorse sparse. Sono stati i Guarino, i Villas e altri – architetti, falegnami, disegnatori, pittori, fotografi, cineasti, giardinieri, giornalisti, poeti e scrittori etc.- ad applicarsi per periodi più o meno lunghi in attività coinvolgenti e significative e a produrre dei risultati in quanto modellavano nuove forme di rapporto e di scambio, scavavano nuovi percorsi e disegnavano nuove mappe del territorio.
Sono stati loro a estendere il tracciato delle pratiche di salute mentale, non gli psichiatri. Gli psichiatri sono stati bravi, o erano considerati bravi, ogni volta che riuscivano a stimolare queste particolari risorse che il servizio pubblico di per sé non offre perché non ha.
Si tratta di risorse terze collegate alla politica delle città, alla politica dei paesi: a una politica di governo municipale che dovrebbe costituire la parte essenziale, il cuore stesso delle politiche civiche. E’ la politica civica a dover essere o diventare la politica specifica di salute mentale, perché c’è in essa il richiamo a quel tanto di comunità che ancora può esistere.