Intervento di Grazia Zuffa pubblicato sul sito del Centro per la Riforma dello Stato.
Il “caso Cospito” è oggetto di un quesito che il ministro della Giustizia ha posto al Comitato Nazionale di Bioetica. Questo concerne l’applicazione della l. 219/2017 nel caso di persone in detenzione. Come si sa, la l. 219/2017 regola, anche con disposizioni anticipate di trattamento DAT, la rinuncia della persona ai trattamenti sanitari, anche salvavita, ivi compresi nutrizione e idratazione artificiale (comma 5 della legge). La richiesta di parere già predispone una tesi. In sostanza il detenuto in sciopero della fame non potrebbe avvalersi della legge 219, in primis perché la rinuncia al trattamento salvavita sarebbe “subordinata al conseguimento di finalità estranee alla situazione clinica”, il che renderebbe “non-libera” la rinuncia stessa. Da qui la domanda se “in regime di detenzione” si possano individuare “limiti o peculiarità” dal punto di vista etico nell’applicazione della legge 219.
A partire da questo assunto (dei supposti “limiti” nel consenso ai trattamenti quando si tratti di detenute e detenuti), il ministro articola altri quesiti, basati su uno specifico inquadramento dello sciopero della fame in caso di persone in detenzione che prefigura le possibili conseguenti risposte dell’istituzione carceraria. E infatti la rinuncia a trattamenti sanitari “in condizioni di limitazione della libertà personale” è definita “una condotta auto aggressiva” per rivendicare i diritti, piuttosto che “una scelta consapevole nell’esercizio della propria libertà di cura”. Alle condizioni così definite, è “eticamente accettabile” che le istituzioni cui la persona è affidata “consentano a chi mette in atto il comportamento di lasciarsi morire”?
Infine, l’ultimo sotto quesito interroga su possibili “limiti dal punto di vista etico” all’“aiuto al suicidio” (“come depenalizzato dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 242/2019”).
Il documento del ministro sottolinea più volte la dimensione etica della questione su cui il CNB è chiamato a rispondere, ciò non toglie però che i tre aspetti, politico/giuridico/etico siano strettamente intrecciati. Bisogna distinguerli, ma se non si chiarisce lo scenario e si disconosce il significato (politico) del gesto di Cospito, si corre il rischio di porre le domande sbagliate, proprio dal punto di vista etico. Perché di Alfredo Cospito si tratta, anche se il quesito non lo nomina mai, per aggirare il regolamento del CNB che di regola esclude pareri su casi singoli.
La prima questione è inquadrare correttamente il comportamento di Cospito. Quel detenuto non vuole morire, dunque l’accenno all’aiuto al suicidio non c’entra affatto. Cospito sta facendo una battaglia politica seguendo la consolidata pratica non violenta dello sciopero della fame: affinché tutto il suo corpo testimoni dell’importanza della sua causa, per essere ascoltato, perché l’istituzione faccia un gesto di riconoscimento di lui come persona, in primo luogo. Ed è importante avere presente la condizione di chi si trova nel regime di 41 bis, in condizioni ai limiti dei “trattamenti inumani e degradanti”; mentre in generale nelle carceri italiane le persone vivono in condizioni sempre più precarie e difficili, al punto che sempre più detenuti decidono di togliersi la vita. La nota del ministro chiama in causa la responsabilità delle istituzioni nei confronti della salute e della vita dei detenuti, per suggerire l’opportunità di un trattamento forzato di alimentazione. Mi chiedo: è eticamente ammissibile chiamare in causa la responsabilità istituzionale, non per sostenere i diritti dei detenuti e migliorare le loro – spesso insostenibili – condizioni di vita, ma per limitare diritti, come quello del consenso ai trattamenti? Se è vero che è eticamente (oltre che giuridicamente) inammissibile ipotizzare un intervento sanitario coatto sul corpo di una persona libera, non è ancora di più eticamente discutibile – per non dire respingente – pensare di intervenire con la forza sul corpo imprigionato? La posizione della Conferenza dei garanti territoriali rimette “al giusto posto” le responsabilità, chiarendo che “lo Stato è responsabile delle condizioni di vita e di salute di Cospito, non certo della sua volontà di condurre lo sciopero della fame fino alle sue estreme conseguenze, che però non può essere coartata o negata”. L’accenno al rispetto della volontà è importante. Se il corpo è imprigionato, la libertà morale del detenuto è bene ancora più prezioso. Allo stesso modo, riconoscere il valore politico dello sciopero della fame di un detenuto, così come lo si riconosce a una persona libera, è atto eticamente significativo, perché restituisce dignità alla persona. Alla persona cui è stata sottratta la libertà, atto “di per sé così grave, così incisivo” per usare le parole di Aldo Moro: per questa persona, il fatto di non essere privato di diritti altri da quello della libertà di movimento è tanto più “prezioso in quanto costituisce l’ultimo ambito nel quale può espandersi la sua personalità individuale” (così recita a proposito la sentenza della Corte Costituzionale n. 349/1993).
Al contrario, il ministro tende a squalificare la protesta di Cospito: è una violenza il suo sciopero della fame, ha dichiarato a Repubblica (11 febbraio). Sulla stessa linea, nella sua nota al CNB, la rinuncia ai trattamenti è definita “condotta autoaggressiva”, “per modificare una situazione personale”. Insomma, una pratica di disobbedienza civile, storicamente esercitata e riconosciuta come non violenta, in condizioni di detenzione muta per il ministro completamente di significato, e viene presentata come una minaccia all’istituzione: e infatti, in altre dichiarazioni alla stampa lo sciopero di Cospito è bollato come “ricatto allo Stato” (bloccando di fatto ogni possibile iniziativa di dialogo e ricerca di soluzione, come ha scritto Franco Corleone sul L’Espresso il 12 febbraio scorso). Vale la pena sottolineare ancora il rovesciamento di rappresentazione della pratica non violenta dello sciopero della fame quando è protagonista un detenuto: poiché proprio questa (supposta) violenza richiama (e giustifica) l’istituzione a “difendersi” ricorrendo a interventi coatti. In questa ottica, appare evidente il carattere punitivo dell’ipotizzato intervento forzato, squarciando il velo dell’afflato solidaristico per la salvezza del detenuto. L’alimentazione forzata assume il significato di “salvare il corpo” negando però “l’anima”, ovvero il valore della protesta del detenuto, con un ribaltamento di responsabilità: se mettere a rischio della vita è un’aggressione all’istituzione, la responsabilità dell’intervento forzato è tutta a carico del detenuto. E poiché l’intera vicenda è oscurata nel suo significato di protesta e con essa l’insieme delle “responsabilità” circa le condizioni di Cospito, l’intervento forzato può essere presentato come l’unica “via di salvezza” per il detenuto (invece che la dimostrazione della “irresponsabilità” a monte dell’istituzione, com’è in realtà).
Dunque, la prima mossa è di accantonare, almeno per il momento, i quesiti sui “limiti” per il detenuto della legge sul consenso ai trattamenti, per ragionare su ciò che si poteva fare e si può fare prima di quella vita a rischio.
Le carceri italiane hanno visto anni di dure proteste, anche violente, a cavallo degli anni ‘70 e ‘80. Ci sono anche stati scioperi della fame. Se non si è mai arrivati a casi estremi è perché perlopiù le istituzioni hanno scelto la via dell’ascolto, del dialogo alla ricerca di soluzioni possibili. Non solo ministri e responsabili politici sono andati nelle carceri a parlare, riconoscendo con ciò che di proteste e di lotte si trattava e non di tumulti e ricatti. Lo hanno fatto anche magistrati, in testa Alessandro Margara, perfino in situazioni così esasperate da far temere per la propria incolumità. Proprio questo riconoscimento è mancato e manca nel caso Cospito. Tutto ciò è bene documentato nella rappresentazione della vicenda che si evince dai quesiti “etici” del ministro, come si è visto. Certo, il magistrato di sorveglianza Alessandro Margara che va nelle carceri infiammate dalla protesta è espressione di un clima e di una scelta politica. Ma anche di una scelta etica, di chi non dimentica di avere di fronte una persona in stato di privazione della libertà: “quell’atto così grave e così incisivo” (vale la pena ripeterle ancora le parole di Moro) perché la libertà è un carattere essenziale degli umani1.
Il quesito così come posto dal ministro è dunque figlio della scarsa responsabilità, se si vuole della scarsa sensibilità etica in tema di carcere. Questo è il primo punto fermo. E non è un caso che proprio questo quesito rechi in sé tante contraddizioni.
Tamar Pitch osserva, a ragione, che la questione in realtà è già risolta sul piano giuridico, perché il diritto alla salute è di tutti e di tutte, senza distinzioni fra detenuti e liberi, addirittura fra cittadini e non, è un diritto delle persone che implica il diritto di essere curato, nonché il diritto complementare di rifiutare le cure. E proprio perché il detenuto resta titolare di diritti costituzionalmente garantiti, eventuali restrizioni potrebbero essere introdotte soltanto per legge. Dunque, la domanda del ministro suggerisce in realtà una scappatoia (che definire etica è veramente una forzatura) per privare il detenuto dei suoi diritti fondamentali. E cioè: il detenuto Cospito non potrebbe godere del rifiuto dei trattamenti perché non li respingerebbe in ragione della loro onerosità ma per altri fini. E dunque tale rinuncia non sarebbe libera in quanto il fine non è la libertà di cura.
È singolare, e al tempo stesso agghiacciante, l’idea di libertà qui sottesa. Invece di intendere la libertà di consenso come non interferenza di altri nelle proprie scelte, si entra nel merito delle finalità e delle ragioni per cui la persona esprime la sua volontà, definendo alcune accettabili e altre no, alcune libere e altre no. Si invoca la libertà per negarla, con ardita capriola. Con una serie di ricadute: le “ragioni” di Cospito non sono buone, dunque non “merita” di rifiutare il trattamento. Cospito non è un paziente, anche se sta male, perché è il suo comportamento la causa del suo male. Anche per questo verso va censurato e punito, negandogli i diritti.
E poiché questi ragionamenti sono avanzati in nome dell’etica, c’è di che riflettere su come è usata, malmenata, strumentalizzata l’etica ai giorni nostri. Proprio questo dovrebbe essere oggetto di una riflessione, da farsi al più presto.
Nota
1 Ricordiamo che proprio a partire dalla qualità della pena che giunge “laddove si coglie l’essenza della persona nella sua dignità e libertà”, Moro giunge al rifiuto dell’ergastolo, la pena perpetua (“Questo fatto agghiacciante della pena perpetua: non finirà mai, finirà con la tua vita questa pena” in Anastasia, Corleone, Pugiotto (a cura di), Contro gli ergastoli, Futura, 2021).