L’elaborazione del reato è un processo doloroso e lungo, ma inevitabile
Pietro Pellegrini[1]
Un breve commento dal punto di vista dello psichiatra sul Femminicidio per “delirio di gelosia” e non imputabilità. Sul piano strettamente psichiatrico, in assenza degli atti ed in particolare delle perizie psichiatriche è difficile intervenire. Infatti, senza un’anamnesi accurata, valutazioni psicopatologiche e approfondimenti psicodiagnostici e strumentali, non è possibile inquadrare correttamente quello che, a prima vista, sembra essere un “delirio” che di solito ha una lunga strutturazione e una durata significativa.
Ancora: il delirio di per sé non sempre porta all’azione ed altri fattori di rischio, precipitanti (o protettivi) o semplicemente concomitanti anche estemporanei, possono essere presenti. Anche su questi ultimi occorre concentrare l’attenzione per comprendere quale sia la loro relazione con i vissuti della persona, la sua storia, le sue relazioni e il suo contesto.
Come frequentemente accade nelle dinamiche intrafamiliari, i fattori che interagiscono sono molteplici e variamente connotati, di tipo affettivo, economico, educativo specie con figli minori, scelte di vita ecc. e in larga parte sono ben comprensibili e del tutto comuni. L’agito aggressivo e violento è multi determinato e non riducibile al solo disturbo mentale in sé, ma rimanda alla persona e alle sue relazioni.
Come è stato giustamente notato vi è una differenza fra gelosia e delirio di gelosia ma, al di là della psicologia e del costrutto psicopatologico, ciò che rileva è la dinamica che conduce all’agito e alle sue conseguenze.
Se la linea è quella di cercare di capire le intenzioni e le componenti psicologiche, non possiamo dimenticare il contributo di Freud (1930) “La perizia della Facoltà medica nel processo Halsmann”, nel quale esprime tutte le sue cautele nell’utilizzare concetti psicoanalitici (il complesso di Edipo nello specifico) per fondare o meno il giudizio di colpevolezza e, citando I fratelli Karamazov di Dostoevskij, aggiunge che «la psicologia è un’arma a doppio taglio» (p. 48).[2]
Una cautela che si può estendere a tutta la psicopatologia che non può assumere un significato giustificazionista dei reati, senza per questo rinunciare ad analizzare e comprendere l’importanza dell’attaccamento, delle violenze subite, della deprivazione relazionale, dell’uso di droghe, della psicopatia, delle dinamiche relazionali o delle evidenze delle neuroscienze (talora impropriamente usate per trovare nuovi nessi causali[3]).
Senza entrare nei dettagli, sul piano psicopatologico viene concettualizzato un costrutto “aggressività-distruttività” che correla con molteplici fattori, e spesso si struttura nel tempo con una molteplicità di vissuti (rabbia, vendetta, colpa ecc.), portando ad un “dolore mentale insopportabile”[4] e una totale perdita di speranza che vede solo nel suicidio o nell’omicidio l’unica soluzione.
La vita può divenire un’insopportabile sofferenza per fattori biologici, psicologici e sociali, relazionali e per il peso dei determinanti sociali di salute. Ciò non fa venire meno il senso dell’autodeterminazione e della responsabilità. Questa rappresenta prima di tutto un elemento terapeutico, nell’ambito di una complessità che si può abbracciare nello sforzo conoscitivo ma non governare su quello operativo.
Una questione che pone lo psichiatra di fronte al rischio di suicidio, al suicidio o alle minacce dirette o indirette di aggressioni, violenze e omicidi e richiede il confronto con la persona nell’insieme delle sue relazioni, non solo con una condizione biologica ma anche con fattori psicologici e sociali. Lo psichiatra può curare solo entrando in relazione con la persona, nel suo mondo interno, correndo il rischio dell’ignoto che apre alla speranza e alla conoscenza. Nell’incontro, nella relazione di cura, si confronta con l’unicità di quella situazione e al contempo con la complessità del modello biopsicosociale, con i determinanti sociali della salute e il tema dei diritti.
Fattori così complessi che andrebbero visti secondo un modello dimensionale e non categoriale e di fronte ai quali lo psichiatra non può essere portatore della “posizione di garanzia” e rispondere per le azioni commesse dal paziente in cura, come se questi agisse solamente sotto la spinta incontrastabile della malattia che spetta allo psichiatra contrastare. Una visione questa che talora, in questi anni, ha visto portare gli psichiatri sul banco degli imputati.
Nel caso specifico sembra si sia fatto riferimento alla nozione di “infermità mentale” deprivata di ogni altro elemento e quindi la “psicosi delirante” o “disturbo delirante” può essere motivo di non imputabilità e di proscioglimento.
Resta da capire come all’interno della logica del “doppio binario” sia stata riconosciuta la sussistenza della “pericolosità sociale”, quindi si sia rilevato un rischio di reiterazione del reato pur in relazione all’età avanzata e alla tipologia del delitto intrafamiliare.
Un proscioglimento senza pericolosità sociale e senza alcuna misura di sicurezza probabilmente sarebbe stato ancor più criticato. Ancora, pur riconoscendo la pericolosità sociale, viene da chiedersi se e come sia stata valutata la possibilità di applicare la misura della libertà vigilata, magari in un luogo di cura e non in REMS.
Al di là di questi aspetti l’impressione è che di fronte al reato di omicidio serva chi si prende cura della persona e quindi l’applicazione della misura di sicurezza detentiva sembra rispondere sia all’esigenza di una “forma di condanna”, sia ad assicurare una terapia che per altro nei disturbi deliranti appare assai difficile e con risultati incerti.
Tuttavia, se è necessaria una cura questa non può che fondarsi su consenso e responsabilità. Il reato resta ben presente nel mondo interno della persona e la sua elaborazione è un processo doloroso, faticoso e lungo ma inevitabile.
La giustizia con il proscioglimento sembra rinunciare ad esprimersi e a dare una prospettiva di trattamento (secondo l’art. 27 della costituzione) e disconosce la responsabilità dell’autore; al contempo nel demandare in toto alla psichiatria non solo perpetua la convinzione che i disturbi mentali possano portare in sè ai reati ma che ad essi si debba rispondere con la cura (applicando l’art 32 della Costituzione, le leggi 180 e 81) e con ciò rende massima la responsabilità e l’autodeterminazione della persona. Prosciolto per la legge ma responsabile nella cura, se questa non è (e non può essere) mera custodia.
Se la responsabilità è terapeutica, occorre coerenza: la persona rea ha bisogno di essere giudicata, di essere ritenuta responsabile delle proprie azioni e delle loro conseguenze e la psichiatria non può curare senza un corretto esame di realtà, la responsabilità e il consenso. Non può avvenire un recupero senza prendere atto della complessità e della necessità quindi di interventi congiunti della giustizia, della psichiatria, dei servizi sociali e dell’intera comunità.
[1] Direttore Dipartimento Assistenziale Integrato Salute Mentale Dipendenze Patologiche – Ausl di Parma
[2] A proposito dell’articolo di Morris N. Eagle “Freud pulsione aggressiva e la legge” P. Pellegrini, Psicoterapia e Scienze Umane vol. 52, N°2, 299-302 Ed. Franco Angeli 2018
[3] Nel caso specifico il rilievo di un’atrofia della corteccia o un allargamento dei ventricoli del SNC
[4] Viene chiamato anche “psychache” (Shneidman 1993), che significa “tormento nella psiche”. Si verifica anche una “costrizione psicologica” e una “visione tunnel”.