Si riparla di affettività e sessualità in carcere. L’iniziativa parte dalla Conferenza dei garanti regionali delle persone private della libertà, che chiedono ai consigli regionali di fare propria una proposta di legge per la “tutela delle relazioni affettive e intime delle persone detenute”, per poi presentarla alle Camere. L’idea di rivolgersi ai consigli regionali è quanto mai opportuna. Il coinvolgimento di istituzioni decentrate come le Regioni darà risonanza – si spera – a una campagna di largo respiro che riaffermi i limiti (costituzionali) della pena nella sua valenza afflittiva, e di converso riproponga il tema dei diritti fondamentali che le persone mantengono pur se ristrette.
Perché questa è la questione, al nocciolo. Può lo Stato privare le persone del diritto a una vita sessuale e a coltivare affetti solo perché imprigionate? Togliere ai detenuti e alle detenute una vita relazionale e sessuale non contrasta col loro diritto alla salute, inteso come diritto alla tutela del benessere psicofisico e sociale? E non è forse il diritto alla salute il primo dei diritti fondamentali per tutti i cittadini e le cittadine, liberi o detenuti?
Questi quesiti, che rimandano a principi etici e costituzionali, non sono inediti e vi sono pronunciamenti autorevoli a favore del diritto alla sessualità e all’affettività in carcere. Li citeremo tra poco. E allora perché i detenuti e le detenute italiane aspettano da oltre venti anni che tali principi si calino nel concreto della vita carceraria?
La prima iniziativa risale al secolo scorso, al 1999. Alessandro Margara, allora direttore dell’Amministrazione Penitenziaria, propose di modificare il Regolamento di attuazione dell’ordinamento penitenziario introducendo la possibilità per i detenuti di trascorrere coi propri cari fino a ventiquattro ore consecutive in apposite unità abitative protette da privacy all’interno dell’istituto penitenziario. Di fronte alla Commissione Giustizia della Camera, Margara asseriva: “Vogliamo tenere assieme cose che possono apparire impossibili ma non devono esserlo, cioè un carcere vivibile in cui la pena non abbia nulla di afflittivo oltre la perdita della libertà”. Con poche e acute parole, andava al fondo della questione, al conflitto fra il principio secondo cui la detenzione non deve annullare i diritti fondamentali a parte la libertà, da un lato; e i dispositivi carcerari di segregazione di corpi privati di umanità, dall’altro.
Da allora, il principio evocato da Margara è stato ribadito più volte. Dalla Corte Costituzionale, con sentenza n.301/2012 e n. 135/2013; dal Comitato Italiano di Bioetica, che in un parere del 2013 riconosce i bisogni relazionali dei detenuti e il mantenimento dei rapporti familiari come elementi costitutivi del diritto alla salute, chiedendo “la possibilità di godere di intimità negli incontri fra detenuti e coniugi/partners, in modo da salvaguardare l’esercizio dell’affettività e della sessualità ”in ottemperanza al “principio etico della centralità della persona, anche in condizioni di privazione della libertà” (p.11 http://bioetica.governo.it/media/1825/p113_2013_salute-dentro-le-mura_it.pdf).
Se, a distanza di tanto tempo, le persone in stato di detenzione aspettano ancora la soddisfazione di un loro diritto, ciò non può essere imputato a semplice “ritardo” o “inerzia” nel modificare il regolamento che impedirebbe i rapporti intimi tramite il dispositivo del controllo visivo; bensì alla volontà tenace, celata dall’opacità del carcere, di mantenere la “implicita proibizione” della sessualità in carcere. Una vera e propria castrazione di un diritto costituzionale, di cui parla Andrea Pugiotto in un recente saggio (Giurisprudenza Penale, 2019).
Sosteniamo questa campagna, con forza e convinzione. Attuare la Costituzione è il miglior modo per difenderla.
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